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I conti sulle pensioni non tornano. E a poco servono gli annunci spot del governo quando i numeri smentiscono le parole. La quota 100 (62 anni più 38 di contributi) in un Paese che non cresce, anzi, arretra (qui l’approfondimento di oggi sui dati di Confindustria e Istat) è un problema serio. Forse semplice fantasia. Forse è per questo che bisognerebbe andarci piano coi proclami. Poche ore fa Matteo Salvini ha detto che la prima finestra utile per le uscite volontarie dal lavoro, si aprirà a febbraio. Ma per Francesco Seghezzi, direttore della Fondazione Adapt, voluta da Marco Biagi, le cose non stanno così. Per una serie di motivi, alcuni riconducibili alla più elementare aritmetica, altri decisamente più politici.

Tutto parte da un’osservazione. Se l’obiettivo del governo è mandare i lavoratori in pensione in anticipo sulla tabella di marcia, a 62 anni, aumentando dunque la platea dei beneficiari per l’Inps, com’è possibile conciliare tale scopo con l’aumento della disoccupazione giovanile certificata oggi dall’Istat? Cioè, se ci sono meno giovani che lavorano, allora ci sono meno persone che versano i contributi a fronte di una spesa pensionistica che cresce: si versa di meno, si paga di più. Qualcosa non torna. E allora?

“Allora molto semplicemente il sistema quota 100 non sta in piedi. E non solo perché si riduce la platea di contribuenti a fronte dell’aumento di quella dei beneficiari, ovvero si incassa di meno per spendere di più. Mettiamo che per ogni uscita dal mercato del lavoro corrisponda l’entrata di un giovane. Bene, i contributi versati dal secondo non saranno mai equiparabili a quelli del primo. Di fatto, per ogni lavoratore che decide di andare in pensione grazie alla quota 100, servirebbero 3-4 giovani in entrata per mantenere i conti in equilibrio”, dice Seghezzi. “Naturale che il sistema non stia in piedi ed ecco spiegato il deficit di sette miliardi solo per la quota 100 per il 2019. Ora però è lecito domandarsi se la quota 100 varrà solo per il 2019. Io ho la vaga sensazione di sì: appurata l’insostenibilità del sistema, nel 2020 se si vorrà fare ancora la quota 100 bisognerà fare altro deficit e cumularlo con quello del 2019. Deficit su deficit, ma l’Europa non ce la farà passare liscia”.

Problema di numeri. Ma anche di tempi. “Non credo sia possibile fare la quota 100 per febbraio. Nella manovra viene semplicemente detto che ci sarà una legge per aprire le finestre. Ma poi bisogna farla e non vedo i tempi tecnici per riuscirci, vista la pausa natalizia, la presentazione del disegno di legge e il lavoro delle commissioni. La vedo dura, senza considerare quanto detto sopra, che non ci sono solide pezze d’appoggio finanziarie”. Ma allora perché tanti spot se poi tutto rischia di infrangersi sul muro della finanza pubblica? “Così hanno modo di dire ‘ecco, l’abbiamo fatto’. Anche se poi non è così. Mettere in manovra l’embrione della quota 100 non vuol dire automaticamente farla, ma per il governo basta questo. Anche sul reddito di cittadinanza ci sono stati parecchi annunci ma ad oggi manca il decreto”.

Seghezzi affronta un ultimo problema, l’Europa. “Ammetto che negli ultimi giorni ci sono stati dei passi in avanti in termini di distensione tra Roma e Bruxelles. Qualcuno al governo si deve essere accorto che l’Italia è rimasta isolata e nessun Paese, nemmeno uno, si è schierato con noi. Salvini e Di Maio si aspettavano delle sponde che non sono arrivate e questo alla fine li ha fatti desistere. Francamente, era da pazzi andare da soli contro l’Europa”.

Salvini, la manovra e il mito della quota 100. L'analisi di Seghezzi

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