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Il settore petrolifero yemenita torna al centro dell’attenzione internazionale con il rientro della texana Hunt Oil, una delle realtà storiche dell’industria energetica del Paese. La decisione arriva in un momento in cui Washington – per impulso diretto del presidente Donald Trump – incoraggia le aziende statunitensi a espandere la propria presenza all’estero. Sana’a, dal canto suo, interpreta questa dinamica come un’opportunità e apre nuovamente le porte agli investitori americani.

Al centro della vicenda, secondo la notizia diffusa dall’esperto regionale Mohammed al Basha, c’è la Jannah Hunt Oil Company (Jhoc), operatore di lunghissima data del Blocco 5 (Jannah), uno dei giacimenti più rilevanti del Paese. Jhoc, registrata nelle Isole Vergini Britanniche e attiva in Yemen dal 1994, è oggi interamente controllata dalla società singaporiana WellTech Energy PTE. Ltd. Nel corso di oltre venticinque anni, l’azienda ha gestito tutte le attività dei tre principali campi petroliferi dell’area – Halewah, Al-Nasr e Dhahab – portando la produzione del blocco a superare i 70.000 barili al giorno nel 2000 e mantenendo successivamente un livello stabile attorno ai 38.000 barili quotidiani.

Al Basha aggiunge che “almeno due società di sicurezza e logistica di proprietà statunitense hanno avviato attività preliminari sul campo nel settore petrolifero dello Yemen del Sud. Non ne farò nomi o affiliazioni, a meno che i documenti non trapelino da un’altra fonte o le informazioni non diventino di dominio pubblico”.

Il Blocco 5 non è solo un asset strategico per lo Yemen, ma anche un esempio raro di cooperazione internazionale nel comparto energetico yemenita: alla partnership originaria partecipavano diverse compagnie internazionali, oltre la statale per gli investimenti in petrolio e minerali. Il ritorno ufficiale di Jhoc alla guida del blocco arriva dopo un anno particolarmente turbolento sui passaggi di concessioni.

Sul contesto pesa ovviamente la guerra civile – lanciata dagli Houthi nel 2014-2015 e non ancora pacificata. Infrastrutture danneggiate, produzione interrotta e condizioni di forza maggiore hanno reso complicata qualsiasi attività operativa, a prescindere dall’operatore formale.

Il rientro di Hunt Oil rappresenta dunque più di un semplice passaggio aziendale: è un segnale politico della volontà dello Yemen di riattivare un dialogo con gli Stati Uniti nel settore energetico, e al tempo stesso un test decisivo per verificare se, nonostante la guerra e le difficoltà strutturali, il Paese sia ancora in grado di attrarre investimenti internazionali di lungo periodo.

La stabilizzazione dello Yemen è uno dei grandi dossier aperti del Medio Oriente: il Paese, data la sua dislocazione geostrategica, è cruciale per le rotte Europa-Asia, disarticolate in questi due anni proprio per le necessità degli Houthi di dimostrare rilevanza nel panorama regionale – con gli attacchi alle navi occidentali che, nel piano dei miliziani yemeniti, dovrebbero servire anche come leva per ottenere risultati sul tavolo negoziale che riguarda il Paese.

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Il ritorno di una storica compagnia energetica straniera in Yemen indica una riapertura del Paese agli investimenti internazionali. Dopo un lungo periodo di dispute amministrative e difficoltà legate al conflitto, la gestione di un importante giacimento torna al precedente operatore. La vicenda segnala tentativi di stabilizzazione e di rilancio del settore petrolifero yemenita

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