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Per usare un linguaggio da Prima Repubblica, i Cinquestelle di Di Maio sono “gli utili idioti” della Lega e di Salvini. Brutale no? Eppure, gli indizi ci sono tutti.

Innanzitutto i sondaggi che hanno visto lievitare i consensi per i Verdi, dal lusinghiero 17% delle politiche di marzo all’attuale stratosferico 30%. Tanta roba che il padano Bossi se la sognava, mentre il barbaro italianizzato di nome Salvini ha conquistato con uno scatto degno del miglior Mennea. Il Movimento di Grillo, invece, non ha saputo consolidare il risultato sorprendente del 4 marzo (32%). Oggi naviga sul 29%, decimale in più o meno, che denuncia l’incapacità di sfondare ulteriormente a sinistra (ormai su quel versante è stato fatto il pieno) mentre non sembrano aprirsi altre praterie elettorali. Anzi, è già un miracolo (politico) la tenuta su quei livelli, grazie anche a una luna di miele prolungata con l’elettorato, soprattutto meridionale.

Secondo indizio: il risultato delle elezioni regionali. La Lega ha fatto il pieno, mentre il M5S è inchiodato a percentuali che ne segnalano l’irrilevanza nelle amministrazioni locali. Basti ricordare che nel frattempo Salvini ha conquistato la guida, pur con l’alleanza di centrodestra, “soltanto” del Friuli Venezia Giulia e del Trentino Alto Adige. Che con la Lombardia e il Veneto costituiscono quasi l’intero nord produttivo. Senza dire che in Liguria governa l’amico Toti, il più filoleghista dei berlusconiani. I Cinquestelle, invece, sono al palo. E non c’è alcuna possibilità realistica che possano ottenere qualche vittoria amministrativa. Anzi, i leghisti non fanno mistero che il prossimo sindaco di Roma sarà uno dei loro. E contano di fare il pieno nei due appuntamenti elettorali del 2019 previsti in Piemonte ed Emilia Romagna. Uno scenario da incubo per Di Maio e soci che vedrebbero confermata l’egemonia dello scomodo alleato nel nord produttivo.

Terzo indizio: la necessità dei Cinquestelle di rincorrere la Lega sul suo terreno. Nel tentativo, a volte goffo, a volte spericolato, di tamponare il vitalismo salviniano. Ma esponendosi, come è già capitato in occasione del decreto fiscale e domani accadrà su quello sicurezza, ai malumori della base e di quella parte del Movimento più sensibile alle istanze di una sinistra sociale che resiste e ha nel presidente della Camera, Roberto Fico, il suo portavoce ufficiale nelle istituzioni. Sempre in attesa del rientro sulla scena del terzo Dioscuro grillino, quell’Alessandro Di Battista, temporaneamente in tour latino-americano (alla maniera di Che Guevara) e pronto a riprendersi il suo posto di lotta e di governo nel Movimento. Con quel suo mix di parole d’ordine che fanno tanto sincretismo di sinistra e destra populiste.

Sin qui i tre indizi principali, ai quali possiamo aggiungere l’analisi di un grillino della prima ora, a suo tempo grande suggeritore e ghostwriter di Beppe Grillo sulle questioni energetiche e sostenitore di quella frazione del Movimento che lui stesso definisce “umanista, ecologica e realista”. Parliamo del professor Marco Morosini, che ancora oggi, sulle pagine del quotidiano cattolico Avvenire, manifesta la sua delusione per l’incapacità dei Cinquestelle di fronteggiare il “disumanismo” di Salvini e mette in guardia il Movimento dall’aver scelto la ridotta del sud (quasi modellandosi come una “Lega Sud”, in un territorio “omogeneo alle regioni meno sviluppate dell’Europa”) lasciando spazio libero all’egemonia leghista sul nord del Paese (“omogeneo all’Europa più progredita”). Abbastanza, a suo parere, per ipotizzare un futuro a dir poco complicato per il Movimento.

A tutto questo si aggiunga la sfida elettorale europea in cui il gap fra i due alleati dell’alleanza gialloverde è, allo stato attuale, del tutto evidente e difficilmente colmabile. L’attivismo di Salvini lo ha portato alla guida del fronte sovranista e addirittura all’ipotesi di una sua candidatura per la futura Commissione europea. Sull’altro versante, Di Maio, ha annunciato un protagonismo europeo che nelle sue intenzioni dovrebbe produrre nuove alleanze e un ruolo da ago della bilancia del Movimento. Dunque, da una parte i fatti, dall’altra gli annunci.

Tornando al linguaggio e ai riti della Prima Repubblica, tutto sembra congiurare per un esito inevitabile: una resa dei conti fra verdi e gialli dopo il voto europeo di maggio. Se poi sarà una crisi, un rimpasto o chissà quale altro marchingegno (riallineamento del contratto?), lo sapremo solo vivendo.

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