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Con ordinanza numero 17/2019, la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, sollevato da 37 senatori del Pd in relazione all’iter di approvazione al Senato della legge di bilancio 2019. Questo perché “non emerge un abuso del procedimento legislativo tale da determinare quelle violazioni manifeste delle prerogative costituzionali dei parlamentari”, che costituiscono requisito di ammissibilità di conflitti di questo tipo. Ma nel contempo ha sancito che il singolo parlamentare è titolare di prerogative costituzionali distinte da quelle che gli spettano in quanto componente dell’Assemblea; prerogative che possono essere esercitate in modo autonomo e indipendente e che sono tutelabili davanti alla Corte stessa, con lo strumento del conflitto di attribuzioni. Tuttavia, per superare il vaglio di ammissibilità, occorre che la violazione di queste prerogative sia evidente e non riguardi profili regolamentari, rimessi alla competenza delle Camere.

La Corte è giunta a tali determinazioni avendo preso atto delle forzature all’iter parlamentare della legge di bilancio 2019, che hanno determinato una compressione del dibattito in Commissione e nell’Assemblea del Senato, aggravando gli aspetti già problematici della prassi dei maxiemendamenti approvati con voto di fiducia; ma nel contempo ha rilevato che l’andamento dei lavori è stato anche condizionato da una serie di altri fattori (come la lunga interlocuzione con le istituzioni europee, la prima applicazione della riforma del regolamento del Senato nell’approvazione del bilancio, insieme con il dato che, comunque, il maxiemendamento costituiva in parte il frutto dei lavori parlamentari svoltisi fino a quel momento). Insomma, le cose non sono andate per il loro verso ma c’era una situazione particolare, che inseriva elementi di giustificazione nella procedura contestata.

In questo quadro, la Corte ha richiamato l’attenzione sulla necessità che il ruolo riservato dalla Costituzione al Parlamento, nel procedimento di formazione delle leggi, sia osservato formalmente ma anche rispettato nel suo significato sostanziale, a tutela della democrazia rappresentativa, fondata sulla possibilità per i parlamentari eletti di contribuire effettivamente alla formazione della volontà legislativa. Ciò, secondo la Corte, vale a maggior ragione per la legge di bilancio, in cui si concentrano le fondamentali scelte di indirizzo politico, si decide della contribuzione dei cittadini alle entrate dello Stato e della destinazione delle risorse pubbliche. Decisioni che esigono “la più ampia partecipazione di tutti soggetti politici alla loro elaborazione”.

Alla luce di queste considerazioni la Corte ha chiuso l’ordinanza avvertendo che “in altre situazioni una simile compressione della funzione costituzionale dei parlamentari potrebbe portare a esiti differenti”. A buon governo poche parole, se non vuole incappare nella censura della Corte.

Bisogna tuttavia considerare che la prassi parlamentare, quale elemento della Costituzione materiale della Repubblica, è caratterizzata da una sostanziale dicotomia di procedure: da un lato i progetti di legge di iniziativa parlamentare non di diretta rilevanza per il governo, che sono di norma incardinati, discussi e approvati in un aperto dibattito parlamentare; dall’altro lato i disegni di legge del governo e i progetti comunque di diretto interesse dell’esecutivo, che sono di norma gestiti dai rappresentanti del governo e dei leader dei partiti di maggioranza, senza una significativa partecipazione degli altri parlamentari, in particolare di opposizione. Fino ad arrivare ai maxiemendamenti monstre, a volte con centinaia di disposizioni eterogenee, approvati col voto di fiducia, prendere o lasciare, senza possibilità effettiva di incidere sul merito per quanti non hanno partecipato al processo di elaborazione e redazione.

In definitiva, la Corte ha sino ad oggi accettato alcune forzature delle regole e una parziale compressione delle prerogative dei parlamentari, ma non sembra disposta ad alzare ulteriormente l’asticella della tolleranza e, al verificarsi di situazioni di palese lesione della rappresentanza democratica, estranee alla competenza regolamentare delle Camere, si dichiara pronta a sanzionare i governi recalcitranti. L’avvertimento è di quelli che non possono essere trascurati: per la salvaguardia della democrazia sostanziale della Repubblica; per i profili relativi al corretto rapporto tra governo e Parlamento; per le gravi conseguenze che avrebbe un intervento sanzionatorio della Corte su importanti provvedimenti legislativi o, peggio ancora, su una futura legge di stabilità e bilancio.

giustizia, corti, fine vita

La Consulta può sanzionare la violazione delle prerogative dei parlamentari

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