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Il 22 febbraio sarà in tutta Italia “Sconnessi Day”: un momento di riflessione sempre più necessaria sull’utilizzo della tecnologia, sul tempo dedicato a smartphone e tablet. Il virus della “nomofobia”, ovvero la folle paura di rimanere di-sconnessi senza alcuna possibilità di accedere al proprio “mobile”, è più contagioso che in passato.
L’invito di questa ricorrenza è semplice: spegnere il cellulare per 24 h. E poi ripetere l’esperimento un’ora al giorno, tutti i giorni, dalle 20.30 alle 21.30: un orario non casuale perché coincide con l’ora della cena in cui le famiglie di riuniscono e in cui i protagonisti dovrebbero essere il dialogo, lo scambio di esperienze, il confronto, l’accoglienza. È sotto gli occhi di tutti quanto, invece, gli schermi luminosi dei device distraggano dalle relazioni, dalle comunicazioni più elementari, dalla complicità dei rapporti.
L’iniziativa, lanciata un anno fa in occasione dell’uscita del film “Sconnessi” scritto e diretto da Christian Marazziti, vuole porsi come momento di sensibilizzazione, educazione al digitale e uso consapevole della rete.
I dati de “La condizione giovanile in Italia. Rapporto giovani 2017” dell’Istituto Giuseppe Toniolo, edito da Il Mulino, parlano chiaro: i millennials indicano come prevalente la modalità “quasi continuativa” nell’utilizzo di Facebook (46%), quella “più volte al giorno” nell’uso di Instagram (31,9%), Snapchat (21,9%) e Twitter (16,9%). A LinkedIn, invece, gli utenti coinvolti nella ricerca hanno dichiarato di connettersi meno di una volta alla settimana. In tutti i casi risulta prevalente l’uso dello smartphone (75,1%) rispetto ad altre tecnologie quali pc o tablet.
L’uso dei cellulari, vista la loro accessibilità e immediatezza, è facilitata rispetto ad altri strumenti: più semplice consultarli in ogni occasione, dai luoghi pubblici alla camera da letto. Già ma con quale obiettivo? Nella top ten delle pratiche più diffuse: leggere i post degli amici o dei follower, leggere e cercare news, conversare tramite messenger, leggere post in un gruppo, commentare post altrui, postare sulla propria pagina foto o video, cercare informazioni su eventi, visitare account di un gruppo, postare solo testo sulla propria pagina e condividere news.
Se da un lato rifugiarsi nella tecnologia può rappresentare la panacea a semplici momenti di noia o inattività così come importanti momenti di approfondimento e accesso alle informazioni, dall’altro può diventare un rituale al quale risulta sempre più difficile sottrarsi, soprattutto in fase adolescenziale.
In questo contesto, gli Hikikomori (termine giapponese usato per coloro che si ritirano dalla vita sociale, spesso cercando livelli estremi di isolamento) rappresentano un evento limite. In alcuni di questi casi, la tecnologia rappresenta il rifugio di un disagio psicologico e sociale: anche In Italia sono ormai numerosi i casi che riguardano principalmente “maschi (con una particolare incidenza tra i figli unici) tra i 14 e i 25 anni e di famiglia benestante, anche se potenzialmente il fenomeno sembra non avere limiti di sesso, età o estrazione sociale – spiega l’associazione Hikikomori Italia -. Si tratta di giovani senza deficit cognitivi, in genere molto introspettivi, particolarmente maturi sul piano intellettivo e dotati di una spiccata sensibilità esistenziale”.
La prevenzione, il dialogo su danni e benefici in merito all’uso della tecnologia, la creazione di un rapporto maturo con i device sembra dunque l’unica via all’incapacità di gestione del fenomeno, all’essere disorientati e insicuri rispetto a tanta complessità.
“La società interconnessa fonda la sua ricchezza sulla smaterializzazione degli scambi, ma rende più evidenti le disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale definendo nuove asimmetrie sociali. Accade così che questa nuova complessità sociale definisca le condizioni strutturali per l’affermazione do un sapere riflessivo che deve fare i conti con la crisi del pensiero, dei paradigmi conoscitivi e con l’incapacità di promuovere soluzioni accettabili. I sistemi di orientamento conoscitivo e valoriale si mostrano inadeguati rispetto ad una realtà sociale costantemente in evoluzione”, ricordava il professor Piero Dominici nel suo “Dentro la società interconnessa” (2017, Milano). Cosa possono fare i genitori? Che ruolo hanno nell’educazione digitale dei propri figli? Sono sempre punto di riferimento? Dilaniati e ondivaghi tra approcci tesi al controllo e paura di perdere i propri figli arrivando a un conflitto, gli adulti tentano di promuovere l’autonomia dei loro ragazzi. Spesso in modo ambivalente come, ad esempio, affidando loro uno smartphone e poi geolocalizzandoli.
A questo proposito, sempre nella ricerca “La condizione giovanile in Italia” si evidenzia come “un’elevata qualità delle relazioni con i genitori e un consistente dominio morale preservano i giovani dal mettere in atto comportamenti a rischio”: dove per comportamenti a rischio si intendono rapporti sessuali occasionali non protetti, consumo di sostanze psicoattive e l’abuso di alcolici. L’abuso delle tecnologie non compare in elenco, ma sembra avere alcuni tratti in comune agli altri eccessi, soprattutto considerata l’instabilità emotiva e relazionale tipica dell’adolescenza.
“I nostri figli sono nel mondo – esposti alla bellezza e all’atrocità del mondo – senza riparo. Sono – come tutti noi – ai quattro venti della vita nonostante o grazie all’amore che nutriamo per loro. Non so davvero nulla dei miei figli, ma li amo proprio per questo. Sempre alla porta ad attenderli senza però mai chiedere loro di ritornare. Vicino non perché li comprendo, ma perché stimo il loro segreto” ricorda il noto psicanalista Massimo Recalcati, nell’introduzione al suo “Il segreto del figlio” (Milano, 2017).
E allora l’idea di spegnere per un giorno o per qualche ora tutta la tecnologia che ci circonda, guardarsi negli occhi e riaccendere i rapporti off line non potrà che rendere più disponibili all’altro, più aperti a un gesto o a un dialogo. Senza alcuna ansia da wi-fi.

Sconnessi e "contenti"? Perché riflettere sull'utilizzo della tecnologia

Di Annalisa D'Errico

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