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Sono passati oltre quattro anni dalla riforma promossa per decreto dal Governo Renzi sul sistema bancario. Era l’inizio del 2015 quando le Banche Popolari con un attivo superiore agli 8 miliardi di euro furono obbligate a trasformarsi da imprese cooperative a società per azioni. Una trasformazione imposta, dettata dall’urgenza – si è detto ripetutamente – di mettere in sicurezza il sistema bancario italiano e di favorire l’afflusso di capitali in modo da rafforzare il patrimonio delle banche. Il tutto mentre, con l’Unione bancaria, si realizzava il passaggio della Vigilanza dalle Banche Centrali nazionali alla Banca Centrale Europea. Misura che ha riguardato gli istituti creditizi definiti significant, tra i quali diverse banche del Credito Popolare, e che ha imposto l’introduzione progressiva di requisiti minimi di patrimonializzazione anche nei confronti delle banche medio-piccole.
Quattro anni sono un intervallo di tempo sufficiente per valutare le conseguenze del provvedimento e verificare quali siano stati gli effetti prodotti.

Si è detto, innanzitutto, che la riforma nasceva dalla necessità di favorire l’afflusso di nuovi capitali e migliorare il livello di patrimonializzazione delle banche. Elemento questo che giustificava anche l’urgenza e il ricorso allo strumento del decreto. Ma esisteva davvero questa difficoltà per le Banche Popolari? Se si esaminano i dati dei bilanci delle singole banche nei 10 anni, dal 2007 fino al 2017, emerge che il processo di incremento dei coefficienti patrimoniali era in corso di piena realizzazione già prima del decreto. Nel 2007 le Banche Popolari avevano un coefficiente Tier 1 pari all’8 per cento, valore che nel 2014 superava il 12 per cento, restando stabile al 12,1 a fine 2017. In pratica, gran parte o tutto il processo di rafforzamento patrimoniale è stato realizzato quando le banche avevano una governance cooperativa e in un contesto economico decisamente più avverso di quello di questi ultimi anni. Le Banche Popolari, dunque, sono state, anche in condizioni di recessione dell’economia, in grado di raggiungere quel consolidamento patrimoniale richiesto dalla Vigilanza, indipendentemente e a prescindere dalla trasformazione dell’assetto giuridico in SpA. Ciò non significa che non vi siano state situazioni circoscritte di istituti in crisi che hanno richiesto misure di carattere straordinario, ma ciò ha riguardato sia banche Spa, sia, in misura minore, Banche Popolari.

Le operazioni di aumento di capitale delle Banche Popolari, dal 2007 ad oggi, sono state 29 (su un totale di 44 del sistema bancario) per un valore di circa 20 miliardi di euro (71 miliardi di euro il dato di sistema). Di queste operazioni, 24 sono state condotte prima del 2015 (per un valore di oltre 15 miliardi di euro), quindi prima del decreto, e solo 5 dopo la trasformazione in S.p.A. delle quali 2 con l’intervento del Fondo Atlante in favore di due Banche Popolari venete per un valore di 2,8 miliardi di euro.
Se, dunque, il motivo per cui il decreto è stato concepito era quello di favorire la raccolta di capitali e mettere il sistema bancario in sicurezza, non sembra affatto che ce ne fosse stato realmente bisogno visto che, ancor prima, le Banche Popolari interessate avevano già intrapreso un percorso di consolidamento e di rafforzamento patrimoniale deciso e significativo.

La domanda nasce spontanea. La trasformazione “coatta” in SpA ha determinato altre conseguenze? Sì, un effetto concreto il decreto lo ha avuto ed è stato quello di spalancare la porta all’acquisizione di partecipazioni significative o di controllo da parte dei fondi esteri nel capitale delle banche. Situazione, questa, che condizionerà l’attività in una misura tale da risultare sicuramente meno compatibile con le esigenze della realtà produttiva dell’economia italiana composta, prevalentemente, di piccole e medie imprese e famiglie. Infatti, se nel 2014 il peso dei fondi nel capitale delle principali Banche Popolari era di poco inferiore al 20 per cento, dopo quattro anni tale quota è aumentata di oltre 15 punti percentuali arrivando al 35 per cento. Inoltre, se si esclude un unico caso che ha visto come protagonista un gruppo bancario italiano entrato con una quota rilevante nel capitale di una banca popolare (Unipol in BPER), gli aumenti registrati in questi ultimi anni hanno riguardato, per la maggior parte, fondi esteri, il cui peso complessivo è salito dal 15 per cento al 27 per cento. Quota, questa, sufficiente a riorientare le strategie verso obiettivi e rendimenti di soddisfazione per gli investitori esteri.

Se l’obiettivo del decreto dunque era quello di favorire il consolidamento patrimoniale delle Banche Popolari, il suo contributo è stato praticamente ininfluente visto che tale processo era già stato attuato per gran parte negli anni precedenti. Al contrario, volente o nolente, l’unico risultato evidente ottenuto è stato quello di favorire ed accrescere la presenza dei fondi esteri all’interno delle banche oggetto del provvedimento.

Banche Popolari, il decreto Renzi apre le porte ai fondi esteri

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