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L’industria americana della Difesa sta affrontando minacce “senza precedenti”, tra l’incertezza del bilancio federale e la spregiudicata pressione della Cina. Come evitare una vera e propria “estinzione delle aziende domestiche”? Facile, con investimenti diretti da parte del governo, tesi a recuperare il gap tecnologico perduto e a garantire prospettive di lungo periodo per un settore strategico per il Paese. Quello che sembra un consiglio al nostro Paese (alle prese con il dibattito su “spese militari inutili”, come le ha chiamate il vice premier Luigi Di Maio) è il risultato dello studio di oltre un anno condotto dalla Casa Bianca, messo in moto dallo stesso Donald Trump e destinato a produrre un grande sforzo normativo teso a velocizzare il procurement militare e tutelare l’industria nazionale.

LO STUDIO

Il report sarà presentato oggi a Washington, ma il suo contenuto è stato anticipato da DefenseNews. Tutto ha avuto inizio con l’ordine esecutivo del 21 luglio 2017, in cui il presidente chiedeva di elaborare un rapporto dal titolo già esplicativo: “Assessing and strengthening the manufacturing and defense industrial base and supply chain resiliency of the United States”. Affidato all’Ufficio per le politiche commerciali e industriali della Casa Bianca e al dipartimento della Difesa, lo studio (circa 140 pagine) è stato coordinato da Peter Navarro, uomo di fiducia di Trump per il commercio e grande conoscitore della Cina. I lavori hanno visto inoltre la partecipazione delle varie amministrazione e il contributo dell’industria, con l’intento di giungere a una prospettiva comune. Tra gli altri, i dipartimenti di Difesa, Energia e Lavoro hanno contribuito al report con una lista di 300 punti di debolezza su cui lavorare e su cui si attendono a breve specifiche riforme legislative. Di fondo, la consapevolezza di avere a che fare con un settore strategico da un punto di vista tecnologico, politico ed economico.

TONI FORTI

I toni utilizzati nel report appaiono piuttosto drastici, paventando la scomparsa di buona parte della base industriale ed evidenziando come il Pentagono stia affrontando una situazione di “limitate capacità, insicurezza di forniture, mancanza di ricerca e sviluppo, ritardi nei programmi e incapacità di agire in momenti di crisi”. Eppure, ciò fa il paio con quanto emerso da altri studi recenti, compresi quello rilasciato a maggio dal dipartimento della Difesa e quello elaborato alla fine dello scorso anno dall’autorevole Center for strategic and international studies (Csis).

LE SFIDE ALLA BASE INDUSTRIALE

Il report individua diverse cause di quello che descrive come un declino delle capacità della base industriale della Difesa. Prima fra tutte, l’incertezza nel budget del governo Usa, connessa ad anni di sequestration che hanno creato instabilità e portato le piccole aziende a diversificare le proprie attività, riducendo la quota di “difesa” (trend individuato di recente da un altro report del Csis). Poi, hanno influito “pratiche antiquate di business” da parte delle amministrazioni americane, che hanno prodotto ritardi e scoraggiato l’innovazione. Hanno influito inoltre le politiche industriali dei competitor internazionali, all’interno di quello che viene definito “il danno collaterale della globalizzazione”. Infine, lo studio nota anche la riduzione delle competenze più qualificate (Stem, scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) che avrebbe creato un gap nella forza lavoro rispetto ai concorrenti.

LE POLITICHE CINESI

Sul piano internazionale, la sfida è rappresentata da Pechino. Come nota DefenseNews, se il termine “Russia” appare nel report solo una volta, per ben 232 volte sono citati i termini “Cina”, “cinese” o “Pechino”. La colpa di Pechino (in linea con l’escalation degli ultimi mesi) è aver messo in piedi politiche aggressive e svantaggiose per l’industria americana, incidendo sull’occupazione Usa anche a livelli di ricerca e sviluppo. “Molte società multinazionali ad alta tecnologia – si legge nel rapporto – hanno stabilito strutture di R&S in Paesi come India e Cina per la possibilità di accesso a manodopera a basso costo e altamente qualificata”. D’altro canto, “come parte della sua politica industriale aggressive, la Cina ha costretto molte aziende americane a traferire le loro attività di ricerca e sviluppo in cambio dell’accesso al mercato cinese”.

I TIMORI PER I METALLI RARI

Per quanto riguarda gli aspetti manifatturieri veri e propri, i timori riguardano i metalli rari e i materiali avanzati, capaci di immagazzinare e poi rilasciare grandi quantità di energia (energetic materials), usati per munizioni e missili. “Le azioni cinesi – si legge ancora nel report – minacciano seriamente altre capacità, comprese le macchine per la produzione; la lavorazione di materiali avanzati come biomateriali, ceramiche e compositi; e la produzione di circuiti di bordo stampati e semiconduttori”.

LA RISPOSTA USA

La parte più costruttiva dello studio riguarda i suggerimenti per un serie di riforme che permetterebbero di “evitare l’estinzione” della suddetta base industriale. Tra le priorità ci sono gli investimenti governativi, essenziali per dare al comparto linfa vitale e recuperare le tecnologie che appaiono indietro rispetto ai competitor. Ciò si lega al secondo aspetto, che riguarda la riforma delle procedure d’acquisto, necessariamente da velocizzare per un time-to-market sempre più ridotto. Si suggerisce poi la cooperazione con gli alleati, al fine di rispondere insieme alla pressione cinese, ma anche la diversificazione dei Paesi da cui gli Usa si riforniscono di materie prime (evitando quelli più instabili). Suggerimenti importanti, che forse dovrebbe cogliere anche l’Italia, in un momento in cui invece il nostro settore della Difesa rischia di essere messo in secondo (se non terzo) piano.

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