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Nel suo briefing di notizie quotidiano, il New York Times l’ha chiamato “difficult day”, e forse quello di ieri, martedì 21 agosto, è stato uno dei peggiori giorni per Donald Trump dall’inizio della sua presidenza. Nel giro di un’ora gli sono piovute addosso due bombe da due tribunali federali che non lo rendono automaticamente colpevole di qualcosa, ma lo mettono politicamente – e forse anche legalmente, si vedrà col corso delle indagini – in difficoltà.

Erano più o meno le quattro del pomeriggio, quando il tribunale di Alexandria, in Virginia, ha condannato in primo grado Paul Manafort, ex capo del comitato elettorale di Trump, per vari reati fiscali (frode, bancarotta e via dicendo). Alle cinque, in un’aula del Southern District di Manhattan (quello di “Billions”), Michael Cohen, per lungo tempo avvocato di Trump e suo storico collaboratore, ha dichiarato la sua colpevolezza per otto capi d’accusa: c’è l’evasione fiscale, la falsificazione di dichiarazioni bancarie, e soprattutto l’uso illecito di fondi elettorali, che Cohen ha dichiarato di aver perpetrato “in collaborazione e su indicazione del candidato” da cui aveva ricevuto l’incarico, ossia proprio Donald Trump.

Cohen avrebbe usato quei soldi per comprare il silenzio di due donne su due storie extraconiugali di Trump. L’avvocato era finito sotto la lente dei procuratori di New York per via della vicenda di “Stormy Daniels”, al secolo Stephanie Clifford, attrice di film porno, che diceva di aver avuto rapporti con Trump e di aver ricevuto soldi per non far trapelare la storia. Cohen è considerato una sorta di “Mr Wolf” (colui che in “Pulp Fiction” veniva ingaggiato per risolvere problemi) e per questo l’attenzione degli inquirenti era caduta su di lui.

Quando mancavano pochi giorni alle presidenziali del 2016, Cohen prese 130mila dollari e li versò a Daniels affinché tacesse su una vicenda sconveniente (Trump era già sposato con quella che da lì a poco sarebbe diventata la First Lady Melania) e poi falsificò una fattura di consulenza fatta al comitato Trump per rimborsarsi. L’avvocato ha ammesso di averlo fatto, e di aver seguito la stessa procedura con Karen McDougal, modella di Playboy: Trump avrebbe avuto una relazione adultera anche con lei (in quel caso Cohen aveva finanziato con soldi suoi, ripresi poi da quelli dei conti della campagna elettorale, un tabloid affinché comprasse i diritti della storia di McDougal e non la facesse mai uscire).

Ieri i giudici del Southern District di Manhattan (quello di Chuck in “Billions”, per gli amanti del genere, ndr) hanno formalmente accettato la confessione di Cohen, ossia hanno avallato la ricostruzione sui giri di pagamenti e rimborsi e hanno verbalizzato che tutto è stato fatto “in collaborazione e su indicazione del candidato, allo scopo di influenzare l’esito delle elezioni”. Ossia, hanno verbalizzato che Trump – che nega di essere a conoscenza di quanto accaduto, nonostante una registrazione sul caso McDougal potrebbe inchiodarlo – era in realtà a conoscenza che alcuni soldi raccolti per sostenere la sua candidatura venivano usati per coprire storie scomode che lo coinvolgevano. La distrazione di fondi elettorali è un reato federale, l’incriminazione del mandante sarebbe automatica se non si trattasse del presidente: in questo caso, infatti, la questione è da teorici costituzionalisti, perché mai successa nella storia.

Questa collegata a Cohen è la storia che tocca più da vicino il presidente (Francesco Costa, esperto di politica americana e vicedirettore del Post, spiega che “dai tempi di Richard Nixon un presidente statunitense non veniva toccato da accuse così gravi”), ma anche il caso Manafort non scherza. Il consulente, ingaggiato durante la corsa elettorale, è finito nel Russiagate – l’inchiesta sulle interferenze russe alle presidenziali, i link con Trump e gli eventuali ostacoli alla giustizia posti dal presidente – ma non è stato condannato dallo special counsel, Robert Mueller, per quella vicenda specifica.

Nel corso delle indagini si è scoperto infatti che aveva nascosto redditi in istituti stranieri per non pagarci le tasse e aveva frodato le banche per ottenere prestiti, ma è anche accusato di attività di spionaggio (non era registrato come lobbista per un governo straniero, quello filo-russo ucraino in carica fino al 2014) e riciclaggio di denaro. Qui la questione è più politica e riguarda l’accountability del presidente: come ha fatto a circondarsi di certe persone – colpevoli e poco oneste – come stretti collaboratori? Al momento ci sono infatti altri tre membri dello staff di Trump finiti sotto accusa e confessioni. Insomma, il punto d’immagine è: sarà in grado il presidente di gestire la cosa pubblica?

Qual è il rischio per Trump? È altamente difficile che qualche tribunale decida di incriminarlo – la procedura sarebbe accademica, complessa e osteggiata dal dipartimento di Giustizia, per poi finire irrimediabilmente alla Corte Suprema. Tempi lunghissimi, oltre la scadenza del mandato (potrebbe essere però incriminato dopo, se dal 2020 in poi non sarà più Commander in Chief).

C’è la possibilità dell’invio degli atti alla Camera per aprire la procedura di impeachement (che non è un atto giurisprudenziale ma politico), però anche in questo caso il percorso è tortuoso. Anche perché la maggioranza semplice dei deputati (quella che serve per istruire l’atto di impeachement, poi servono i due terzi del Senato per la definizione) è attualmente in mano ai repubblicani, ed è difficile per ora che il partito decida di sconfessare il suo presidente. Ma attenzione, a novembre ci sono le elezioni di metà mandato, e gli equilibri alla Camera potrebbero cambiare – e Muller potrebbe far arrivare in aula anche i documenti del Russiagate.

Dopo novembre si capirà anche se l’armistizio su base elettorale che ha tenuto insieme Trump e il partito – che non vuol perdere la maggioranza bicamerale – reggerà l’urto delle Midterms. Molto dipende dal risultato, ma anche i guai giudiziari e d’immagine in cui Trump è invischiato rischiano di far smottare il delicato equilibrio interno al Grand Old Party.

L’attuale avvocato di Trump, l’ex sindaco di New York e super-repubblicano, Rudolph Giuliani ha detto che “non vi è alcuna accusa di illeciti contro il presidente in quanto detto da Cohen. È chiaro invece che le azioni di Cohen sono state per molto tempo disoneste e menzognere”. Dopo le dichiarazioni di Giuliani, Lanny Davis, uno degli avvocati di Cohen, ha replicato in televisione che il suo assistito ha informazioni che potrebbero interessare Mueller e sarebbe felice di condividerle.

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