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La Cina ha annunciato che prenderà misure commerciali di ritorsione su 60 miliardi di dollari di beni statunitensi importati, mossa che ribatte l’annuncio ufficiale del presidente americano Donald Trump su dazi da imporre per 200 miliardi in prodotti che i cinesi esportano in America – decisione su cui ormai si attendeva solo l’ufficializzazione.

Le tariffe di ritorsione della Cina, che vanno dal 5 al 10 su più di cinquemila articoli, entreranno in vigore il 24 settembre, ha detto il ministero delle finanze cinese in una dichiarazione pubblicata sul suo sito web. Pechino è ancora pronto a negoziare la fine delle tensioni commerciali, dicono, ma non resterà ferma a subire gli attacchi americani – le nuove tariffe americane, che alzeranno il costo dei prodotti cinesi del 10 per cento, entreranno in vigore contemporaneamente.

Quasi nello stesso momento in cui la lista delle tariffe veniva resa pubblica da Pechino, il presidente Trump ha minacciato ulteriori contromisure contro la Cina se si dovesse rivolgere a prodotti agricoli statunitensi con un fine politico: “La Cina ha apertamente dichiarato che sta attivamente cercando di influenzare e cambiare le nostre elezioni attaccando i nostri agricoltori, allevatori e lavoratori industriali a causa della loro lealtà nei miei confronti”, ha detto Trump su Twitter. “Ciò che la Cina non capisce è che queste persone sono grandi patrioti”.

Il presidente si riferisce a questo scenario: Pechino, già in una precedente ondata dello scontro commerciale, aveva colpito beni importati del mondo dell’agricoltura Made in Usa. Alzare le tariffe doganali in quel settore, più che la rappresaglia nel mondo degli scambi, aveva uno scopo politico profondo: minare aree del consenso trumpiano, collegato alle persone che lavorano nel settore, distribuito in quella che viene definita l’America profonda. Così facendo, i cinesi speravano di mettere in difficoltà Trump davanti al suo popolo (che subiva sulle proprie tasche le conseguenze delle decisioni contro la Cina del Prez), e dunque giocare la carta nell’ambito delle elezioni di metà mandato, con cui gli americani a novembre rinnoveranno molti dei seggi al Congresso – colpire il consenso trumpiano significava colpire il partito, e il suo delicato equilibrio con la presidenza, che si basa molto sull’investimento fatto dai repubblicani perché Trump confermi il doppio dominio su Camera e Senato.

Lunedì, col suo annuncio Trump ha anche minacciato la Cina di altre misure, stavolta su 267 miliardi di prodotti, da lanciare a gennaio se Pechino non si dimostrerà aperta a concessioni, che riguardano sia il comportamento commerciale (per ridurre lo sbilancio import/export con gli Stati Uniti) sia modifiche al sistema economico (dai sussidi statali che alterano la concorrenza, alle aperture agli investimenti americani in Cina, e poi sulle pratiche scorrette come lo spionaggio industriale).

Il segretario al Tesoro americano, Wilbur Ross, ha detto alla Cnbc che le nuove misure adottate da Washington serviranno a modificare il comportamento cinese e a livellare il campo da gioco per le ditte americane che fanno affari con la Cina. Ross ha detto che Pechino non avrebbe dovuto reagire per rappresaglia, visto l’ammontare dello sbilancio commerciale a proprio favore.

Se la “fase tre” – ossia gli ulteriori 267 miliardi minacciati a gennaio – dovesse entrare in vigore, aggiunta ai già esistenti 50 miliardi colpiti in estate e i 200 effettivi da lunedì prossimo, significherebbe che l’amministrazione Trump colpirà tutto il mercato che la Cina esporta verso gli Stati Uniti – la Cina è il principale dei paesi fornitori degli Stati Uniti, dunque è da verificare se su lunga gittata i dazi contro Pechino possano rivelarsi un boomerang come alcuni analisti sostengono.

Nei prossimi giorni era in programma un nuovo round degli incontri negoziali tra la Cina e gli Stati Uniti, ma secondo quanto riferito al South China Mourning Post da fonti cinesi, Pechino ha bloccato la pianificazione della riunione. “La speranza”, ha detto Trump mentre lunedì annunciava i nuovi dazi, “è che questa situazione commerciale sia risolta alla fine da me e dal presidente cinese Xi Jinping, per il quale ho grande affetto e rispetto”. Diverse volte l’americano ha cercato di spostare l’affare su un piano personale e diretto (bilaterale) con Xi, con cui Trump dice di aver un’ottima empatia (costruita nel giro di pochi incontri), ma Pechino ha già fatto sapere che non ha nessuna intenzione di trattare “con una pistola alla tempia”.

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