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Giuseppe Conte si consola dicendo che il più drastico calo della produzione industriale da diversi anni, verificatosi a novembre (meno 1,6% rispetto al mese precedente e meno 2,6% rispetto ad un anno fa), era previsto. Talmente predetto che la “manovra del popolo”, per contrastarlo, aveva un forte (magari!) carattere espansivo. Ancora più spericolato Luigi Di Maio che, analizzati i fondi del caffè nella più pura tradizione partenopea, crede “possa esserci un nuovo boom economico come negli Anni Sessanta”. Allora “avevamo le autostrade e ora la nuova sfida sono le autostrade digitali”.

Entrambi appartengono alla scuola di Platone. Sono capaci di cogliere l’essenza nascosta delle cose. Che gli altri non possono vedere e, di conseguenza, testimoniare. Come tutti i presbiti guardano alla luna, ma precipitano nel fosso della possibile imminente recessione. Crollo delle attività produttive e forte aumento del tasso di disoccupazione. Questi i dati reali che non appartengono al meraviglioso mondo dei 5 Stelle.

Ma se fossero state vere le preoccupazioni del presidente del Consiglio, non si sarebbe impegnato nel lungo braccio di ferro contro Matteo Salvini, per tassare le auto tradizionali. Discussioni infinite, rispetto alle iniziali ipotesi di partenza. Una super tassa sugli acquisti di autovetture nuove a benzina o diesel: poi limitata a quelle di più grande cilindrata. Il tutto per incentivare gli acquisti di auto elettriche: appannaggio quasi esclusivo della produzione giapponese e coreana.

La bellezza dell’ecologia, contro lo spettro dell’inquinamento. Atteggiamento tanto nobile, quanto devastante ai fini degli equilibri del mercato. Specie se si considera che la crisi dell’auto era da tempo nell’aria, con la forte caduta dei relativi consumi. Che con la “manovra del popolo” hanno ricevuto il colpo di grazia (meno 4,2% su base annua destagionalizzata), contribuendo a trascinare nel baratro l’intera produzione industriale.

Eppure gli insegnamenti del passato dovevano dire qualcosa. La prima rottamazione delle auto risale al lontano 1997. Fu voluta da Romano Prodi per rinnovare un parco auto troppo vecchio ed inquinante. Allora la Fiat aveva pressoché il controllo completo dell’intero mercato. Quella posizione di quasi monopolio fu smantellata grazie ai benefici fiscali concessi dal Governo a quasi esclusivo vantaggio dei concorrenti esteri, che conquistarono il Bel Paese, vantando una migliore qualità della propria produzione. Risultato: una voragine nella bilancia commerciale italiana.

Dov’è l’analogia? Quando si anticipano troppo le dinamiche del mercato, il meglio apparente diventa nemico del bene. Se poi tutto questo è indorato dal richiamo alla “rivoluzione”, il disastro diventa inevitabile. Nel ‘97, Giuseppe Conte aveva poco più di 30 anni, probabile che quei ricordi appaiono sfocati e, forse, appannati. Mentre Di Maio portava ancora i pantaloni corti. Ma questo è il limite del giovanilismo, specie se vissuto con supponenza. Manca di memoria storica. E purtroppo i risultati sono lampanti.

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