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Steve Bannon torna a far parlare di sé. Quando un anno fa aveva perso il suo posto di capo stratega di Donald Trump alla Casa Bianca in molti, a cominciare dall’infuriato Tycoon, avevano sperato di relegare Bannon in un angolino, forse persino all’irrilevanza. E invece la sua vacanza dall’attività politica a Capitol Hill si è trasformata in un interminabile tour che gli sta fornendo in abbondanza fama, visibilità e polemiche, un cocktail da prima pagina per i tabloid internazionali. L’ultima puntata questa settimana. Sloppy Steve (così lo ha chiamato Trump sbattendolo fuori dal suo ufficio) è stato invitato a parlare ai festival di due delle più prestigiose e patinate riviste americane: The New Yorker e The Economist. Apriti cielo: gli organizzatori hanno subito dovuto fare i conti con un’ondata di polemiche e la minaccia da parte degli ospiti più attesi di dare forfait al festival. David Remnick, il direttore del New Yorker, ha preferito fare marcia indietro. Troppo alto il prezzo da pagare. Confermare l’invito Bannon vuol dire rifiutare senza batter ciglio comici di grido come Judd Apatow, John Mulaney, Jimmy Fallon, Patton Oswalt. E poi a un cantante e compositore come Jack Antonoff e al rapper Boots Riley. Per non parlare di Jim Carrey. Sì, anche lui ha lanciato un aut aut al board editoriale. Davvero vale la pena far contento Steve Bannon e privare il palcoscenico di uno dei più grandi attori comici di sempre?

Domanda lecita, cui sono state date risposte diverse. Perché la decisione presa dal direttore Remnick non è stata digerita facilmente da tutta la redazione. Una firma di punta come Michael Gladwell, ad esempio, non si è fatta troppi problemi a dire la sua: “Pensavo che il punto di un festival delle idee fosse esporre l’audience alle idee; se inviti solo i tuoi amici si chiama cena”. Altre voci autorevoli si sono levate dal mondo della stampa per criticare il “Bannon ban”. È il caso di Jack Sahfer su Politico, che sentenzia impietoso: “L’urgenza di ergere un cordone sanitario intorno a Bannon viene dallo stesso impulso paternalistico che spinge i censori a censurare le idee politiche, i libri, l’arte, la volgarità, la musica, la religione, la danza e l’erotismo. A forza di giocare al guardiano i nemici di Bannon pensano di proteggere le masse. E invece gli hanno permesso di diventare un martire, e lo hanno solo reso più forte”. Remnick da parte sua è corso ai ripari, spiegando che l’intervista in programma sarebbe stata rigorosa e senza sconti, ma che in fondo è meglio non disattendere le richieste dello staff, della redazione e degli ospiti. Poco male – ha aggiunto il direttore – The New Yorker intervisterà Bannon un’altra volta. Peccato che lo stratega non abbia mandato giù il boccone, dal momento che ai microfoni della CNBC ha definito Remnick un “senza p***e”. Potrà forse rifarsi in Italia, Paese per cui sembra avere una predilezione. Voci di corrodoio lo vogliono ospite ad Atreju, l’appuntamento annuale organizzato da Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia.

Simmetrico e opposto il caso che ha visto protagonista l’Economist, rivista storicamente liberale e liberal, di certo poco attratta dalla retorica nazionalista e populista dell’ex guru di Breitbart News. L’invito al festival Open Future è confermato. Lo ha scritto la direttrice Zanny Minton Beddoes: “Il futuro delle società aperte non sarà garantito da intellettuali che parlano insieme rinchiusi in una bolla, ma sottoponendo persone e idee a domande e dibattiti rigorosi”. Poco importa – ha aggiunto – che “Bannon si batta per una visione del mondo antitetica ai valori liberali che l’Economist ha sempre difeso”, perché la censura non impedirà a Bannon di essere “uno dei più grandi fautori” del nazionalismo nel mondo.

Chapeu. Beninteso, essere invitati al festival di una rivista non è certo un “diritto”. Né ha tutti i torti chi critica una sovraesposizione mediatica, talvolta quasi morbosa, nei confronti di figure discutibili e discusse in politica. Ma tagliare fuori dal dibattito una persona controversa e al contempo complessa come Steve Bannon in ossequio al politically correct non aiuta a comprenderne le ragioni, a studiarla, e finanche a prevederne le prossime mosse. Per questo motivo Formiche.net ha incontrato Bannon lo scorso giugno, sottoponendolo a un dibattito che ha lasciato spazio tanto agli applausi quanto a critiche severe nei confronti dello stratega. Il faccia a faccia rigoroso organizzato dall’Economist può servire da monito per le forze liberali in corsa per le elezioni europee del 2019 contro il nuovo movimento sovranista annunciato da Bannon (The Movement). I circoli chiusi suonano come una resa incondizionata.

Steve Bannon divide la stampa liberale. Il New Yorker lo banna ma l'Economist...

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