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Ci sono da diverso tempo segnali che indicano come per il sanguinario dittatore siriano Bashar el Assad sia in corso una riqualificazione politico-diplomatica. Uno di questi, molto forte, arriva dagli Emirati Arabi, che – come rumors apparsi da mesi sui media anticipavano – hanno ripreso il servizio diplomatico dalla Siria e riaprono oggi l’ambasciata a Damasco. È un segnale solido del fatto che le relazioni tra il mondo arabo e il governo siriano stanno avviando una nuova stagione, dopo anni di isolamento imposto alla Siria, legato alla guerra civile esplosa nel 2011 e tutt’ora in corso.

Se c’è un vincitore in tutto questo, oltre al pragmatismo della realpolitik più dura, quello è Vladimir Putin e la sua Russia, che da sempre hanno tenuto vivo il regime dal punto di vista diplomatico, cambiando passo dal settembre del 2015, quando i russi sono entrati in guerra per puntellare Assad – con l’interesse di costruire in Siria la propria estensione fisica in Medio Oriente. Mosca ha costruito il perfetto sistema per la riqualificazione assadista, un combinato disposto di notizie false e alterate per spingere la propaganda pro-regime in tutto il mondo, abbinato a un messaggio fondale semplice: se non volete Assad, l’alternativa è il Califfato baghdadista.

Ad ottobre, Assad – su cui pesano migliaia di morti, molti civili, e milioni di profughi – aveva anticipato al giornale kuwaitiano Al Shahed di aver raggiunto un livello di “maggiore comprensione” con il resto del mondo arabo. Il 16 dicembre il sudanese Omar al Bashir (altro dittatore spietato) è stato il primo leader arabo a visitare Damasco dall’inizio della guerra civile. Tre giorni fa, Ali Mamlouk, capo dell’intelligence siriana, ma soprattutto curatore dei rapporti esteri per Assad, era al Cairo per incontri di alti livello che seguono un pattern che negli ultimi anni s’è ripetuto più volte (ed è passato anche per l’Italia: una nostra fonte ci aveva spiegato che con la Siria non si potevano perdere del tutto i contatti). Ora arriva la riapertura della sede diplomatica emiratina, mentre fonti dicono al Guardian che la Lega Araba è pronta a riammettere la Siria – espulsa circa otto anni fa, dopo la violenta risposta alle prime sollevazioni popolari, esplose poi in rivolte e guerra civile.

La visita di Bashir è considerata una mano tesa da parte di Riad: il sudanese è un uomo protetto politicamente dall’Arabia Saudita, e la sua presenza al palazzo presidenziale di Damasco è un messaggio di apertura da parte del più importante dei paesi della regione – che anni fa ha finanziato in vario modo l’insurrezione contro il regime siriano. E sulla stessa scia si pone la riapertura dell’ambasciata UAE: emirati e sauditi sono partner strettissimi, che muovono insieme la loro politica estera regionale. Il posto diplomatico sarà un backchannel per il regno, che non può ancora esporsi troppo apertamente su Assad, ma ha già garantito il proprio aiuto nella ricostruzione via Stati Uniti.

Sono lontani i tempi in cui se Assad avesse messo il naso fuori dalle sue stanze per un raggio di dieci chilometri sarebbe finito senza testa – tanto era il territorio perso dal regime e finito in mano ai ribelli. Sono lontani i tempi del “must go!” con cui Barack Obama trattava il dossier-Siria: tutto, ma Assad non deve far parte del paese, diceva fino a due/tre anni fa il dipartimento di Stato americano, che lavorava con la Cia e gli stati amici del Golfo (ergo: emiratini e sauditi) per aiutare i ribelli anti-regime. Tutto, però, senza troppa convinzione.

Ora Assad ha riconquistato gran parte del territorio grazie all’aiuto militare iraniano e russo. E gli Stati Uniti del presidente che in campagna elettorale diceva “non mi piace Assad ma Assad sta uccidendo l’Isis” (proprio come recita quello schema promosso da Mosca) stanno ritirando le loro truppe, quelle che in partnership con i curdi hanno strappato tutta la fascia nord-orientale allo Stato islamico: e i curdi, rimasti da soli, vanno verso un accordo di salvezza con Damasco, per evitare di essere schiacciati da un repulisti turco.

Un altro dei segnali delle riqualificazione di Assad (e dei suoi motivi) passa anche dalla Turchia. Ankara, che un tempo vedeva Assad come un nemico da detronizzare, nel corso dei complicati anni di guerra ha cambiato allineamento passando al sistema negoziale condiviso con Russia e Iran (i grandi sponsor assadisti). L’obiettivo era cedere su alcuni terreni – per esempio la permanenza al potere di Assad finita la guerra – per ottenere in cambio qualcos’altro, per esempio la possibilità di agire militarmente contro i curdi siriani al confine (che Ankara considera nemici perché alleati del Pkk e teme che la loro dimensione semi-statuale possa essere vista come un sogno dai curdi turchi).

In questi giorni i carri armati turchi scalpitano per entrare in Siria, secondo una sorta di concessione che Washington ha lasciato ad Ankara con il ritiro siriano, ma sulla mossa turca si sono espressi contrariamente tutti i più interessanti attori regionali. Innanzitutto la Russia (e l’Iran), poi l’Egitto e l’Arabia Saudita, che hanno sottolineato che le aree che i curdi hanno strappato ai baghdadisti devono tornare sotto la sovranità del legittimo proprietario: Assad e il governo siriano. E i curdi sono corsi a chiudere un’intesa con Damasco.

In Siria sono cambiate le priorità: se fino a qualche anno fa l’obiettivo di far cadere Assad e poi ricostruire il futuro del paese era potabile (e per questo Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar e Turchia hanno appoggiato i ribelli), l’intervento russo e il disimpegno americano (prima obamiano e poi trumpiano) hanno invertito il corso degli eventi sul campo. Adesso Assad è forte e più o meno solido, ha vinto la guerra civile e c’è un cambio di prospettiva. A luglio l’aveva spiegato il ministro degli Affari esteri emiratino al locale The National: riallacciare i rapporti col regime è l’unico, pragmatico modo per poter giocare più leve e creare canali di contatto.

La priorità non è più combattere Assad, ma combattere il jihadismo propagante (i gruppi ribelli che si sono radicalizzati durante la guerra civile sono tanti, e tutti condividono un certo livello d’odio verso i governi e i governanti del Golfo, che pure in passato li hanno finanziati); e poi c’è da combattere l’aumento di influenza iraniana. Tra i paesi del Golfo – che sulla politica siriana hanno intensificato l’interlocuzione con la Russia – i quelli della Lega Araba sta prendendo peso l’idea che questo è possibile soltanto tenendo aperto il contatto con Assad, aiutarlo economicamente e commerciale per man mano  pivotarlo fuori dalla sfera d’influenza di Teheran – che ha sfruttato il soccorso offerto al regime assadista durante le fasi più buie del conflitto siriano per diffondere la presa politica-militare-sociale nel paese.

Non ultimo, infine, l’obiettivo dei paesi della Lega Araba, e di emiratini e sauditi, è contrastare la possibilità che la Turchia – che sulla Siria ha ritrovato il contatto con gli Stati Uniti – cresca d’influenza nella regione, secondo una divisione storica nella visione dell’Islam politico, e soprattutto nell’influenza politica in Medio Oriente.

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