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Prima il G7, poi il caso Aquarius, infine lo scontro con Macron. L’esordio del governo Conte nello scenario internazionale non poteva essere più turbolento. E questo è solo l’antipasto. Il menu estivo prevede, tanto per cominciare, un Consiglio Europeo di fine giugno dove il governo gialloverde dovrà decidere se votare a favore delle sanzioni settoriali alla Russia o consumare lo strappo promesso in campagna elettorale. Non proprio spiccioli, ecco. Poi il summit Nato a luglio nel quartier generale di Bruxelles, dove i leader europei saranno ancora una volta alla prova Trump. A giudicare dalle premesse e dai precedenti difficile che si trasformi in una passeggiata di salute. In ballo c’è qualcosa di più di “far bella figura”. C’è il collocamento internazionale del Paese, e soprattutto la salute dei rapporti con il nostro alleato n.1, gli Stati Uniti d’America. L’amicizia di Washington è merce rara in Europa di questi tempi. L’Italia forse ha qualche carta in più rispetto agli altri Stati europei. Quale? Lo abbiamo chiesto a David Unger, docente di politica estera americana alla John Hopkins di Bologna, per trent’anni firma di punta della redazione esteri del New York Times.

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Non dobbiamo sopravvalutare questi gesti, Trump dice una cosa un giorno e il giorno dopo cambia idea. Credo che gli abbia fatto piacere sapere che in Italia c’è un governo populista. Non c’è dubbio che sia più ben disposto nei confronti di Giuseppe Conte rispetto ad Angela Merkel o Emmanuel Macron. Il problema è che Matteo Salvini, non Giuseppe Conte, è l’uomo forte del governo.

Crede che fra Trump e Salvini ci sia ammirazione reciproca?

Ammirazione mi sembra una parola grossa. Diciamo che ci sono i presupposti perché i due vadano d’accordo. Trump considera la gestione del caso Aquarius un enorme successo. A differenza di quanto sta succedendo al confine messicano con le separazioni delle famiglie, Salvini è riuscito a fare un lavoro pulito. La nave è stata scortata e assistita dalla Marina, non ci sono state vittime né feriti. Insomma, il caso Aquarius non solo ha lanciato la Lega nei sondaggi, ma ha fatto da catalizzatore per il dibattito sulla politica migratoria oltreoceano.

Però i numeri in parlamento e al governo sono a favore dei Cinque Stelle. Che idea si sono fatti alla Casa Bianca del Movimento?

Difficile a dirsi, i Cinque Stelle sono ancora un oggetto misterioso. Certo, è improbabile che il loro cavallo di battaglia, il reddito di cittadinanza, piaccia a Trump, che invece ha puntato tutto sulla creazione di nuovi posti di lavoro. Le incomprensioni con il nuovo governo italiano non mancheranno, le richieste della Casa Bianca potrebbero risultare molto impopolari nello Stivale. Ma fra Cinque Stelle e Lega credo che Trump dia priorità alla seconda.

Perché?

Per un motivo molto semplice. Quando sente parlare dell’Italia in tv vede un solo volto: quello di Matteo Salvini, non di Luigi Di Maio.

Il governo gialloverde non ha ancora dissolto tutti i dubbi sulla postura che intende mantenere in politica estera. Prevede frizioni fra Washington e Roma?

Per l’Italia non sarà facile soddisfare tutte le richieste di Trump. Il dossier Nato e quello delle sanzioni alla Russia hanno profonde conseguenze sul budget e sulla politica energetica italiana. Trump non ha intenzione di cedere di un metro, fa così anche con gli altri alleati. Non gli importa che l’Italia sia sottoposta a un regime di austerity, vuole comunque che contribuisca alla Nato con il 2% del Pil.

Al momento il target del 2% è poco più di un miraggio, a meno che non si stracci il contratto di governo. Come uscire dall’empasse?

Trump ha una carta da giocare per evitare lo scontro con il governo italiano sul budget della Nato. Dal momento che l’Italia già spende molto nella Difesa e ospita a Napoli una fondamentale base Nato, Trump potrebbe chiedere a Bruxelles di non contare le spese addizionali nella Difesa come parte del deficit italiano. Ha il potere e la voce per farlo. Ma con lui nulla si può dare per scontato.

Intanto si avvicina il summit della Nato a Bruxelles dell’11-12 luglio. Tutti ricordiamo le immagini dell’anno scorso: Trump che rimprovera gli alleati per aver disatteso gli impegni presi, i leader europei che ascoltano attoniti. Si aspetta un deja-vu a luglio?

Il summit Nato è fra un mese, siamo ancora a giugno. Qualsiasi previsione rischia di essere smentita. Ogni giorno Trump si sveglia e valuta quale argomento ha più spazio nel dibattito mediatico prima di prendere posizione. È in assoluto il migliore in questo. Oggi il dossier caldo è l’immigrazione al confine con il Messico. Al summit Nato troverà il modo di prendersi il palcoscenico, ancora una volta.

Le sanzioni europee contro la Russia sono un altro potenziale pomo della discordia che potrebbe dividere Roma e Washington. Il Consiglio Ue le ha rinnovate, ma la decisione finale spetta al Consiglio Europeo di fine giugno.

Non credo che le sanzioni europee contro la Russia possano divenire motivo di scontro fra Italia e Stati Uniti. Dopotutto il governo Conte ha votato a favore delle sanzioni in seno al Consiglio Ue. E inoltre sulla Russia Trump ha posizioni molto ambigue. Un giorno dice che Putin è suo amico, un altro chiede agli alleati di seguirlo sulle sanzioni. Il governo americano ha mantenuto una linea dura con Mosca, Trump ha dovuto fare gesti plateali per dimostrare alle opposizioni di non essere il burattino di Putin. Ma repubblicani e democratici avrebbero voluto molta più intransigenza.

Davvero Trump decide in autonomia come gestire i rapporti con la Russia?

A dire il vero ascolta alcuni dei suoi consiglieri. John Bolton, ad esempio. Conosco molto bene John e posso garantire che, a dispetto delle apparenze, non è solo un “falco”, è un intellettuale. Non concordo con quello che dice, ma non c’è dubbio che sia la persona più influente accanto a Trump.

Più influente del segretario di Stato, la colomba Mike Pompeo?

Pompeo è un politico più tradizionale, vecchie maniere. Bolton ha una grandissima esperienza internazionale alle spalle e soprattutto ha una sua visione del mondo. È convinto che per ogni problema esista una e una sola soluzione: quella militare.

Allora non è poi così influente. Con la Corea del Nord Trump ha imboccato la direzione opposta.

Questo perché Trump ascolta, ma fa di testa sua. Lo ha fatto con Jeff Sessions, lo sta facendo ora con John Bolton. Oggi il consigliere per la Sicurezza Nazionale è nelle grazie del presidente, fra sei mesi chi lo sa. Nessuno è davvero al sicuro in questa Casa Bianca.

Neanche Steve Bannon, il capo stratega cacciato da Trump che ora gira l’Europa incitando alla rivolta populista contro il “partito di Davos”.

È davvero stato cacciato? Non la metterei su questo piano. Ok, ha perso il suo lavoro alla Casa Bianca. Ma il Bannon pensiero è rimasto intatto a Capitol Hill. Vede, l’impronta che lasciano personaggi del suo calibro non scompare così facilmente. A dirla tutta non escludo affatto che Bannon e Trump si sentano ancora al telefono.

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