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Con il giuramento di oggi al Quirinale si chiude una delle stagioni più turbolente della recente storia della Repubblica, conseguenza forse inevitabile del voto del 4 marzo. Abbiamo vissuto giornate difficili, che hanno messo fortemente sotto pressione anche il Capo dello Stato, per almeno due giorni accusato di attentato alla Costituzione dal partito più votato dagli italiani: una situazione potenzialmente esplosiva dalle imprevedibili ricadute dentro e fuori i confini nazionali.

Alla fine però il buon senso ha prevalso e siamo arrivati ad un accordo onorevole che consente di tenere insieme i due aspetti più delicati della vicenda, cioè quello politico e quello delle relazioni internazionali.

Sul versante politico si concretizza cioè quanto stabilito nelle urne dagli elettori: i due “vincitori” Salvini e Di Maio formano una coalizione di governo di dignitosa solidità parlamentare (almeno sulla carta) e di significativa convergenza programmatica (saggiamente formalizzata in un documento condiviso).

Lo fanno senza essersi proposti come alleati agli italiani, che li hanno votati in schieramenti avversi, ma questo è uno dei portati inevitabili di una legge elettorale proporzionale (come ben si vede in Spagna in queste ore, dove il cambio del primo ministro accade per mutati equilibri parlamentari).

Per quanto riguarda la collocazione internazionale è ben evidente il ruolo giocato dal Capo dello Stato. Moavero agli Affari Esteri, Tria all’Economia, Savona agli Affari Europei e lo stesso Conte a Palazzo Chigi rappresentano un quartetto di solida appartenenza all’establishment nazionale che guarda a Bruxelles in modo magari critico (Savona e Tria soprattutto) ma non certo con propositi incendiari, che peraltro sarebbero incompatibili tanto con il nuovo inquilino della Farnesina (forse il più apprezzato italiano a Bruxelles insieme a Mario Monti, del cui governo non casualmente ha fatto parte), quanto con un giurista di solida formazione come il nuovo premier.

Insomma nel governo c’è molto della novità dei grillini e dei leghisti, ma c’è anche molta farina del sacco di Sergio Mattarella, che ha recuperato una centralità spesso apparsa appannata nelle scorse settimane.

Tutto bene quel che finisce bene? In un certo senso sì, almeno per ora. Anche perché la sinistra va all’opposizione, come in fondo ha sempre voluto (almeno Renzi, gli altri non tanto) e il Cavaliere mantiene un minimo di rapporto con Salvini (pur condizionato da una antipatia reciproca che ha spesso sfiorato l’incidente): quindi nessuno è fuori dai giochi.

Ora però parte un governo che ha riversato sugli italiani enormi aspettative di cambiamento, tutt’altro che facili da rendere concrete, visibili, durature. Salvini e Di Maio si giocano la faccia in questa partita, che avrà nel rapporto con Bruxelles il “tavolo” di più difficile gestione. Ad ogni modo è tempo che i fatti prendano il posto delle parole. Queste ultime non sono mancate in questi tre mesi, anzi ne sarebbe bastato un quarto.

E che governo sia. Da oggi, però, contano solo i fatti

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