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La politica e la società italiana hanno metabolizzato solo in parte l’omicidio di Aldo Moro. Il rapimento dell’allora presidente della Dc ha sicuramente segnato indelebilmente la politica italiana, ma è legato a una storia parziale che ha a che fare con il terrorismo degli anni 70. Per rendere giustizia all’eredità politica e umana di Moro e fare finalmente i conti con la sua vicenda bisogna “liberare Moro dal caso Moro”. Per lo stesso motivo è sbagliato sovrastimare la portata delle motivazioni delle Brigate rosse. I brigatisti non sono stati i protagonisti di un’epopea rivoluzionaria. Le loro azioni vanno piuttosto inquadrate nel contesto più ampio della crisi delle ideologie, che, lungi dall’essere un fenomeno solo contemporaneo, iniziava negli anni 70 a consumare la politica italiana. L’uccisione di Moro non ha un significato politico, è stata la pura logica  del terrorismo a prevalere, che nulla aveva a che fare con delle motivazioni rivoluzionarie.

Una volta messa da parte l’ossessione per il caso Moro, si può affrontare l’eredità politica dello statista democristiano, partendo dalla sua idea di centrosinistra. Anche qui però, ci sono delle precisazioni da fare. Aldo Moro, checchè ne dicano alcune ricostruzioni storiografiche, era contrario al compromesso storico, proposto invece da Berlinguer. Moro era piuttosto favorevole all’ipotesi del governo di solidarietà nazionale monocolore della Democrazia cristiana nato nel 1976 grazie alla non-sfiducia (l’astensione) dei comunisti, entrati nella maggioranza parlamentare solo nel 1978, dopo il rapimento. Nella sua idea, il riavvicinamento dei comunisti alla maggioranza di governo era legato a una situazione di emergenza. Sia politica, perché i socialisti si erano sfilati dal disegno del centrosinistra di Moro, sia economica, per via della crisi e dell’in azione a due cifre. Moro quindi accetta la logica della solidarietà nazionale, rifiutando però l’ingresso dei comunisti nel governo. Nel suo ultimo discorso pubblico, per convincere i parlamentari Dc ad accettare l’ingresso dei comunisti nella maggioranza, Moro chiede di imboccare “una via che ci si apre dinanzi, che ci permetta di restare sostanzialmente nella nostra linea anche se su un terreno nuovo e più esposto”, nuovo sicuramente vista la forte tradizione anticomunista del Partito. Dietro il ragionamento dello stati- sta pugliese c’è il convincimento profondo che l’identità dei partiti non debba mai prevalere sulla necessità di governare il Paese, ma debba piuttosto essere funzionale a questo scopo. Questa, forse, è la grande lezione e l’eredità politica di Aldo Moro. Da tenere a mente soprattutto in queste settimane, quando l’identità dei partiti e del loro interesse elettorale sembra prevalere sull’obiettivo del governo e le trattative tra le parti politiche sono orientate in funzione dell’interesse elettorale immediato, invece che a quello del Paese.

Studiando la storia politica di Moro vi si scorge l’immagine di un politico scomodo, per tutti. La sua visione lungimirante della politica interna e internazionale spesso si è scontrata con le posizioni rigide, parziali e manichee. Moro, ad esempio, si spese a lungo per spiegare all’ambasciatore americano in Italia che l’ingresso dei comunisti nella maggioranza parlamentare non avrebbe in alcun modo intaccato la linea filo-atlantica della politica estera italiana, ma anzi, era un passaggio necessario per preservarla. Per questo, tra gli americani, c’era chi riteneva il suo metodo levantino, d’una furbizia mediterranea.

Per fare tesoro del pensiero politico di Moro e della Dc, il partito di cui Moro è stato uno dei più autorevoli esponenti, occorre innanzitutto comprendere che la storia della Dc è stata legata intimamente al contesto storico in cui si è sviluppata, e non è perciò riproducibile. Tuttavia, un elemento della politica di quel partito è ancora attuale e andrebbe recuperato. La Dc è riuscita in anni difficili a garantire la coerenza della politica italiana. Tale coerenza, specialmente in politica estera, permetteva al Paese anche una certa dose di autonomia, di Moro si ricorda ad esempio l’attenzione peculiare ai Paesi mediterranei e a quelli del Terzo mondo. Tutto ciò però non andava mai in contraddizione con la linea filo-atlantica e profondamente europeista. Da quando la Dc non c’è più, l’Italia è diventata incerta. Prima con la politica ondivaga dei governi Berlusconi, che vacillavano tra le scelte filo-americane che mettevano in discussione la fedeltà europeista e le sintonie personali con Putin. Oggi, addirittura, c’è chi mette in discussione le radici europeiste. Tutto ciò è semplicemente insostenibile per un Paese che ambisce ad avere un ruolo nel mondo. Ricordare Moro oggi non deve servire a rivisitare improbabili teorie complottiste né ad abbandonarsi a sterili nostalgie. Piuttosto, della lezione morotea dobbiamo imparare a riproporre quella nozione di politica come servizio e quell’idea dei partiti come strumento per il governo del Paese, capaci di anteporre ai propri interessi elettoralistici, l’interesse generale del Paese.

 

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