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Alla fine la quadra (Bossi docet) si è trovata. Ma non è stato facile. Giorni e giorni passati nella ricerca di un’impossibile intesa. Cambiamenti improvvisi del fronte. Con Luigi Di Maio nella veste del Duca di Mantova che, nel Rigoletto, canta “questa (la Lega) o quella (il Pd) per me pari sono”. Il che la dice lunga sul possibile profilo programmatico del governo che verrà. E poi la schizofrenia. “Berlusconi male assoluto” secondo Di Battista. Il leader di Forza Italia, candido agnello, secondo Di Maio nel momento del bisogno, per scongiurare l’ipotesi di un “governo neutrale”.

Si dice che i primi vagiti di un uomo ne segnino il carattere fin dall’inizio. Per i governi non è poi così diverso. La relativa incubazione incide sul relativo Dna e ne condiziona gli sviluppi futuri. Se la diagnosi è giusta, aspettiamo, con una certa apprensione, di vedere l’effetto che fa. Sperando solo che il contesto sia diverso da quello che domina nella bella canzone di Enzo Jannacci. Al momento ogni previsione appare prematura. Troppe le caselle da riempire. Il tutto sotto l’occhio vigile di un Capo dello Stato che ha mostrato una pazienza infinita. Ma che non sembra essere disposto ad avallare politiche in contrasto con valori non negoziabili.

È difficile prevedere quale possa essere il profilo programmatico del prossimo governo. Non aiutano i programmi elettorali dei due partiti: tutti tesi alla caccia del voto, sfruttando il malessere che attanaglia le viscere della società italiana. Tanto meno il cosiddetto “contratto alla tedesca”: un mini trattato di natura sociologica che non affronta alcun problema reale di questa non semplice congiuntura. Poi ci sono le cose appena sussurrate. Sassi lanciati, come il ventilato referendum sull’euro adombrato da Beppe Grillo, per poi nascondere la mano. Meglio quindi un bagno di realismo. Vedere cioè il contesto oggettivo che ne condizionerà l’evoluzione.

Il primo dato riguarda il sistema di alleanze. Dall’Europa non si esce. Non perché questo sia il migliore dei mondi possibili, ma perché l’exit strategy sarebbe la strada che porta all’inferno. Con un debito pubblico inferiore solo alla Grecia e superiore di 50 punti base alla media dell’Eurozona, solo alimentare il sospetto, porterebbe al suo inevitabile default. Non si dimentichi che l’unico ristoro ad una congiuntura finanziaria, quanto meno complicata, deriva dal quantitative easing di Mario Draghi. Uscire dal perimetro della Bce, sarebbe disastroso. Non impedirebbe solo il rinnovo dei titoli in scadenza (circa 400 miliardi ogni anno) ma colpirebbe al cuore una Borsa, come quella italiana, che presenta la migliore performance europea.

La conseguenza è che le alleanze internazionali non si toccano. Resta la Nato, l’unità d’intenti nei confronti della Russia di Putin, la prospettiva di una partecipazione alla necessaria rifondazione dell’Europa. Discorso impegnativo. Dire, come è stato detto, che l’Italia rispetterà solo gli impegni che vanno a vantaggio dei propri cittadini, è dire tutto e dire niente. Il difficile è contribuire a determinare quei cambiamenti generali in cui ciascun Paese possa ritrovarsi con le proprie specificità. Regole che non vadano a vantaggio di alcuni e detrimento di altri. Ma siano in grado di rappresentare il necessario compromesso in cui tutti possano riconoscersi. L’insegnamento di Mario Draghi, capace di vincere le resistenze corporative di alcuni Paesi, dovrebbe aver fatto scuola.

C’è quindi il fronte interno. Al di là dei singoli capitoli della prossima agenda di governo, esiste un architrave, che ha un valore pregiudiziale. Occorre puntare su una politica di sviluppo o semplice redistribuzione del reddito? Stabilire questo spartiacque è essenziale per un successivo possibile compromesso, tenendo conto della frattura, non solo economica e sociale, ma politica che spacca, come una mela, l’intero Paese. È evidente che i “territori del Nord” – quella parte italiana della Mitteleuropa – sono anche disponibili a preoccuparsi di chi è rimasto indietro. Ma alla sola condizione che una siffatta politica non prosciughi i pozzi da cui ricavare la linfa necessaria per il possibile sviluppo.

Ecco allora che alcuni temi andranno attentamente meditati. Si può realmente abrogare la legge Fornero, eliminando uno dei pivot su cui si regge il difficile equilibrio previdenziale italiano? Si può introdurre fin dall’inizio la flat tax, sperando che l’intendenza, come diceva Charles De Gaulle, sotto forma di sviluppo, seguirà? Quale sarà la versione finale del “salario di cittadinanza” che alla fine prevarrà, considerate le mille versioni che sono state, finora, fornite?

Interrogativi che rimangono. A scioglierli non sarà solo il futuro governo. Finora Sergio Mattarella ha scelto di esercitare il ruolo di arbitro. La nomina dei singoli ministri, non è, tuttavia, una sorta di atto notarile. La firma del relativo decreto è prerogativa presidenziale. E già nella scelta di alcuni ministri chiave (esteri, interni ed economia) si vedrà quale piega potrà prendere il futuro governo.

Legge Fornero, flat tax e salario di cittadinanza. Il possibile profilo programmatico del governo che verrà

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