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La mia prospettiva di ragionamento è che la politica “perde” non tanto laddove incontra rapporti di forza più “potenti” ma, prima di tutto, nel suo essere vuota, senza visioni e senza prospettive. Il “fare politica” si va riducendo sempre di più a un’attività di presa d’atto di ciò che si vede; in tale contesto, a cosa serve pensare-la-realtà per contribuire a ri-crearla ?  Il fine del fare politica sembra essere soltanto quello di essere utile a risolvere i problemi mentre, primariamente, tale compito spetterebbe all’amministrazione. In sostanza, il fare politica “scimmiotta” l’amministrazione (far arrivare in orario i treni e così via) e, di fatto, non governa.

Siamo prigionieri del/nel fare, navigatori nell’imminenza. La pancia del popolo lancia messaggi lineari e diretti che la classe politica non può fare altro che raccogliere per mantenere un consenso “fragile”, solamente fondato su ragioni di reciproco interesse. Così facendo, è chiaro che si toglie senso, progressivamente, anche alla dignità della democrazia: se tutto è funzionale, nulla è più progettuale.

Il popolo è una entità inesistente ma, nei fatti, condiziona pesantemente un potere debole; d’altronde, pur non esistendo, il popolo è sovrano. Il fare politica è tipico di una politica vuota. Quando la pancia del popolo chiede rappresentanza agli esponenti del fare politica il risultato è il fenomeno che chiamiamo “populismo” che, a seconda dei contesti, assume forme, contenuti, linguaggi autoctoni. Ciò che conta dire è che, in questo “rapporto perverso” (almeno secondo chi scrive) tra il fare politica e il popolo, a farne le spese è la “mediazione istituzionale”. Il populismo logora la “democrazia rappresentativa” ed esalta la “democrazia diretta”. Tale logoramento, limitando il nostro sguardo all’Italia, va avanti da tempo; si potrebbe dire che esso è cominciato con l’investimento forte sulla figura dei leader (personalizzazione del fare politica) che ha comportato la crisi de-generativa, lo svuotamento dei partiti tradizionali come “comunità politiche” e il conseguente svuotamento della democrazia rappresentativa.

Sempre di più si evidenzia l’urgenza di “agire politicamente”, ri-comprendendo il fare politica in un orizzonte più ampio. Perché, in primo luogo, il fare politica non ha respiro né prospettiva storica; in secondo luogo, il fare politica ha un approccio rivolto al breve termine, pur “predicando” altre cose in termini di propaganda.

L’agire politico è l’atto della politica progettuale; esso è tutt’altro che un semplicistico “prolungamento” del fare. L’agire riguarda la dimensione dell’oltre e si colloca – realisticamente – nei “segni dei tempi” che evolvono. L’agire politico esce dai canoni classici della scienza politica ma apre scenari che incrociano le dinamiche di storie che si trasformano in maniera sempre più veloce e sempre più radicale; dinamiche che vanno dal globale al locale e che, pertanto, sono i passaggi del mondo-in-noi.

Quale dovrebbe essere, in termini politici, il nostro rapporto con il mondo ? Questa è la domanda-chiave alla quale è necessario cercare di dare una risposta.

Dal fare all'agire politico

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