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L’utilizzo dei droni negli Stati Uniti ha oramai preso piede in innumerevoli modi. Dal fertilizzare i campi con costi notevolmente ridotti rispetto ai metodi tradizionali, all’impiego di droni termici nelle operazioni di soccorso per cercare persone intrappolate da frane, fino ai droni cargo per inviare rifornimenti essenziali come acqua e latte in polvere a comunità isolate come avvenuto durante l’emergenza dell’uragano Helene. Ma questo esteso impiego comincia a diventare problematico se si considera che il primo produttore di droni al mondo, compresi quelli utilizzati negli Usa, è la Repubblica Popolare. Un problema che va attaccato alla radice, sulla scia di quanto fatto in passato.

Un recente disegno di legge sulla difesa, approvato dal Congresso, include una clausola che potrebbe vietare a due aziende cinesi di vendere nuovi droni sul mercato americano, qualora si dimostri che rappresentano un “rischio inaccettabile” per la sicurezza nazionale. Già in precedenza, il Congresso aveva vietato alle agenzie federali l’acquisto di droni cinesi, con alcune eccezioni, e diversi stati hanno adottato misure simili. I sostenitori del divieto, come la rappresentata repubblicana dello Stato di New York Elise Stefanik, considerano strategicamente irresponsabile consentire alla Cina di dominare il mercato dei droni. Altri, come il senatore repubblicano della Florida Rick Scott, hanno paragonato i droni cinesi a potenziali strumenti di spionaggio simili ai palloni aerostatici, sottolineando i rischi per le infrastrutture critiche e le basi militari statunitensi.

Ma non tutti sono favorevoli a questo approccio. Come ad esempio l’Associazione Internazionale per i Sistemi Senza Equipaggio, che si oppone al divieto proposto favorendo invece investimenti per rafforzare l’industria americana e rendere i droni statunitensi competitivi sia in termini di costo che di prestazioni.

La preoccupazione per la dipendenza tecnologica dai droni cinesi è amplificata dalla posizione dominante di Dji Technology Co., azienda leader del settore con sede a Shenzhen, che controlla la maggior parte del mercato globale. Nonostante Dji sia stata accusata di fornire droni per la sorveglianza della minoranza degli Uiguri e di avere legami con l’esercito cinese, l’azienda nega ogni illecito. Dji è stata inserita in diverse blacklist statunitensi, e alcune spedizioni sono state bloccate per presunti legami con il lavoro forzato, accuse che l’azienda definisce infondate.

L’assenza di alternative competitive rende complessa la transizione. Al momento i droni cinesi offrono una combinazione di affidabilità, semplicità d’uso e costi contenuti, che non trova riscontro nei prodotti statunitensi. E abbandonare d’improvviso i droni cinesi significherebbe rinunciare a tecnologie fondamentali per le loro attività quotidiane, dalla mappatura alla ricerca e soccorso.

Le restrizioni hanno già avuto impatti tangibili. In Florida, un divieto statale ha costretto molte agenzie pubbliche a sostituire i droni Dji con modelli conformi, spesso più costosi e meno performanti. Per gestire la transizione, il governo statale ha stanziato venticinque milioni di dollari per supportare i programmi di droni gestiti da enti pubblici, ma il processo si è rivelato complesso e costoso, sia in termini economici che operativi. Ad esempio, il dipartimento dello sceriffo della contea di Orange ha speso quasi 580.000 dollari per rimpiazzare diciotto droni non conformi, ricevendo un rimborso parziale di 400.000 dollari.

La situazione riflette una più ampia competizione tecnologica ed economica tra Stati Uniti e Cina. Washington ha già imposto restrizioni ad aziende cinesi di telecomunicazioni e veicoli elettrici, e ha incrementato i dazi su diversi prodotti. Con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, è probabile che queste tensioni aumentino ulteriormente. Le restrizioni sui droni rappresentano solo un aspetto di questa sfida più ampia, che include semiconduttori, intelligenza artificiale e tecnologie emergenti.

 

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