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Sono trascorsi solo due anni da quando Matteo Salvini ha postato su Facebook con un sussulto d’orgoglio una foto che lo ritraeva assieme all’allora candidato repubblicano Donald Trump. Un’intervista del tycoon all’Hollywood Reporter avrebbe poi pesantemente minimizzato l’incontro con il segretario leghista, divenendo oggetto di scherno da parte dei dem italiani. Il faccia a faccia però c’era stato davvero, e a organizzarlo era stato Guglielmo Picchi, già consigliere per la politica estera del Carroccio, oggi sottosegretario agli Affari Esteri del governo Conte. A prescindere dalla baruffa politica, all’epoca la foto diede l’impressione che Salvini fosse solo un fan del creatore di The Apprentice, capitato per caso davanti allo stesso obiettivo. Oggi le cose sono cambiate. Donald Trump è Presidente degli Stati Uniti d’America. La Lega è passata dal 14% al 17,6% ma gli ultimi sondaggi la collocano ben più in alto. E Salvini è il nuovo ministro dell’Interno, ovvero ha in mano le chiavi per la sicurezza e la politica migratoria del Paese. Quella che sembrava semplice ammirazione due anni fa oggi prende la forma di una precisa agenda di governo. Migranti, politiche agricole, dazi e tweets al vetriolo: ogni giorno che passa il leader leghista cerca di mettersi sulle orme di Trump. Che ci stia riuscendo è tutta un’altra storia. Vediamo cosa li unisce.

IMMIGRAZIONE

“La linea dura sui migranti paga”. Così in un’intervista a sorpresa a Fox and Friends nel giardino della Casa Bianca Trump ha elogiato il pugno duro sull’immigrazione del nuovo governo italiano. Giuseppe Conte può vantare un plauso degli amici americani del tutto singolare, all’indomani di un G7 di fuoco. Ma è Matteo Salvini a incassare una buona parte dell’endorsement del presidente Usa. È stato lui a gestire tanto sul piano pragmatico quanto su quello mediatico il caso Aquarius, sbarrando la strada alla nave di Sos Mediterranée a suon di hashtag e foto dal volto crucciato. Come ha spiegato a Formiche.net il politologo americano Walter Russell Mead, l’immigrazione può essere il trait d’union fra l’amministrazione Trump e il governo Conte, perché in fondo entrambi “sono convinti che l’unico modo per affrontare l’emergenza sia un richiamo alle norme vigenti e non ai diritti umani”. In questi giorni, fatte le dovute distinzioni, il presidente Usa e il ministro dell’Interno si trovano stretti nella stessa morsa. Il primo sotto il fuoco dei democratici, che lo accusano di separare le famiglie di immigrati messicani al confine, e di una parte dei repubblicani, che speravano in un accordo a metà strada, più moderato. Salvini viene rimbrottato da ong, opposizioni e istituzioni europee per gli indiscriminati respingimenti in mare dei migranti, e per i toni assai poco istituzionali. Nessuno dei due, al momento, è intenzionato a optare per le mezze misure.

AGRICOLTURA

Ecco un’altra cosa in comune: gli agricoltori. Per Trump e Salvini le cooperative, i gruppi di pressione e i sindacati hanno costituito un bacino prezioso di voti. Conquistati in campagna elettorale con la promessa di una dura lotta alla concorrenza sleale asiatica, gli imprenditori e i contadini statunitensi ora temono la vendetta e in particolare i dazi minacciati da Pechino sui cavalli di battaglia dei cosiddetti fly-over states: carne di maiale, tabacco, soia. Alla prova dei fatti America First intimorisce non poco quegli allevatori e agricoltori che da sempre sono un feudo inespugnabile dei repubblicani. Una guerra commerciale con i cinesi, tanto più se si somma al ritiro dal Nafta con Canada e Messico, rischia di gettare l’America rurale nelle braccia dei democratici alle elezioni di mid-term. Il matrimonio fra Salvini e il mondo agricolo italiano invece non dà segnali di rotture imminenti. La scelta per il ministero dell’Agricoltura del fedelissimo Gian Marco Centinaio, che già questo lunedì sarà al lavoro a Bruxelles, conferma la scelta del Carroccio di battere i pugni in Europa contro le importazioni asiatiche. “Siamo pronti a fermare i barconi che portano in Italia cibo avvelenato” ha tuonato a giorni alterni Salvini dal suo giuramento. Il dossier più caldo resta però il Ceta, l’accordo di libero scambio con il Canada bloccato dalla piccola regione belga della Vallonia, ma in fondo inviso a tanti in Ue, perché ritenuto inadatto a proteggere il “made in” dalle imitazioni oltreoceano. Su questo punto le principali associazioni italiane di categoria si dividono. Coldiretti appoggia la linea Salvini e chiede al governo Conte di non ratificare l’accordo. La Cia (Confederazione Italiana Agricoltori) si schiera dall’altra. “L’accordo con il Mercosur è problematico, ma il Ceta è vantaggioso” dichiara ai microfoni di Formiche.net il presidente Dino Scanavino, “i canadesi sono tenuti a indicare la denominazione d’origine sui prodotti”. L’invito della Cia è “procedere per piccoli passi; il Ceta ormai è una realtà su cui si può intervenire ma per migliorarlo, non per bloccarlo”.

ECONOMIA

Non è un mistero che la flat tax leghista, quella al 15% e non al 20% come proposto da Forza Italia, attinga a piene mani dalla tax reform di Donald Trump. Salvini lo ha detto e ridetto nelle sue comparsate in tv, sono gli Stati Uniti la musa ispiratrice della tassa piatta. Se davvero così fosse non ci sarebbe di che preoccuparsi. A dispetto dello scetticismo iniziale, e delle denunce dei democratici contro la “tassa per i ricchi”, la riforma fiscale del tycoon entrata in vigore il 22 dicembre sta dando i suoi frutti. Certo, qualcuno dovrà pur pagare in futuro per il sollievo fiscale concesso alle aziende Usa. Secondo un recentissimo studio del Brookings il conto del debito pubblico arriverà al tavolo delle future generazioni, e la rivoluzione fiscale aumenterà le disuguaglianze. Ma intanto le aziende fuggite all’estero si sono messe in fila per fare ritorno, la deregolamentazione ha attirato gli investimenti e la disoccupazione, compresa quella di afroamericani e ispanici, è ai minimi storici. Per il segretario del Carroccio però passare dalle parole ai fatti sarà ben altra storia. Intanto quella nata come flat tax sta prendendo i contorni di una dual tax. A via Bellerio ferve il dibattito sull’opportunità di dividere in due fasi l’entrata in vigore della tassa, dando precedenza alle imprese sulle famiglie. Che dire poi della consecutio logica con cui Salvini prende le difese della flat tax italiana: “Se uno fattura di più e paga di più è chiaro che risparmia di più, reinveste di più, assume un operaio in più, acquista una macchina in più e crea lavoro in più”. Tanti, troppi se. Dare per scontato che un aumento dei risparmi si traduca in un aumento degli investimenti è una scommessa rischiosa, soprattutto in Italia. C’è infine da affrontare il discorso protezionismo. Salvini applaude da mesi Trump per l’innalzamento dei dazi contro Pechino e Seul e chiude un occhio sulle stoccate di Washington verso l’Ue. Ma seguire Trump sulla politica commerciale rischia di essere un autogol per l’Italia. “Trump ha diverse ragioni per chiedere un riequilibrio commerciale con il resto del mondo” spiega a Formiche.net Carlo Pelanda, politologo ed economista. “Trump non nasce protezionista, lo è diventato per motivi di opportunità e necessità. Salvini invece nasce protezionista, un tratto tipico di una cultura sindacale, fondamentalmente di sinistra. Speriamo che lavorando al governo capisca che un po’ di protezionismo fa parte di una normale conduzione della nazione, un eccesso indica un gap cognitivo su come funziona il mondo”.

COMUNICAZIONE

Dulcis in fundo, il vero terreno su cui Salvini e Trump possono incontrarsi: la comunicazione. Entrambi sono twittatori compulsivi. Impossibile non riconoscere lo stampino del tycoon nelle scelte comunicative del ministro dell’Interno. Tweet brevi, sillabati, chiusi da una frase slogan o meglio ancora un hashtag, e per condire una vera passione per punti esclamativi e caps-lock. In comune c’è anche l’interminabile battaglia contro i “fake news media”, questa più accentuata nel presidente Usa. Chiaro e inequivocabile il richiamo al trumpismo nei cappellini e nei cartelli blu con su scritto “Salvini premier”che hanno riempito le piazze in campagna elettorale. Che ci sia Steve Bannon dietro il nuovo volto trumpiano di Matteo Salvini? Di certo c’è che l’ex capo stratega di Trump ha incontrato il leader leghista all’indomani delle elezioni in un ristorante di Milano. E anche che il fondatore di Breitbart News è un tifoso del nuovo titolare del Viminale, un’arma vincente contro “il partito di Davos”,come ha ribadito di recente a Roma. Si avvererà il suo sogno di un Trump in salsa italiana? La partita è appena cominciata.

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