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Qualche giorno fa, su facebook, Stefano Buffagni, Sottosegretario agli Affari Regionali del Governo Conte, laureato in Economia alla Cattolica di Milano e già Consigliere Regionale in Lombardia per il M5S (info wikipedia) ha commentato con enfasi e soddisfazione il risultato dell’asta di agosto dei BTP quinquennali e decennali del Tesoro italiano. La domanda era superiore all’offerta e i titoli sono stati acquistati.

Effettivamente, sembra una buona notizia. In questi tempi di incertezza nei confronti del futuro economico e politico del paese, il fatto che qualcuno acquisti titoli a lungo termine del nostro debito pubblico sembra già di per sé un fatto positivo.

Se non fosse che, per essere sicuro che la domanda si materializzasse, il Tesoro ha dovuto rialzare il rendimento sui titoli emessi al 3,25%, un livello mai visto da diversi anni a questa parte.

Un livello che in effetti, anche scontando il rischio paese, effettivamente fa gola, dati i tassi prevalenti sui mercati mondiali, in rialzo ma stabilmente inferiori al 2%. Per trovare un rendimento analogo al nostro (sopra al 3%) sui mercati europei, bisogna andare (a parte naturalmente la Grecia)… in Ungheria (già, proprio il paese di Orban… evidentemente ha ragione Salvini: abbiamo davvero parecchio in comune con gli ungheresi).

L’asta di BTP-10 di giugno era stata ancora fissata dal Tesoro ad un tasso lordo annuo del 2% (in continuità rispetto ai mesi precedenti, ed in linea con il tasso d’inflazione programmato della Bce). Già con quella di luglio si era dovuti salire al 2,8%; con quella di agosto siamo arrivati al 3,25%.

Ora, il Tesoro non indica questi prezzi a casaccio. Lo fa sulla base degli umori dei mercati finanziari, onde evitare di trovarsi nella spiacevole situazione di non riuscire a vendere tutti i titoli che intende collocare sul mercato. Perché se non vende i titoli di debito, non può pagare gli stipendi, molto banalmente. E non ha nessun interesse ad aumentare il prezzo d’asta oltre il necessario, perché significherebbe aumentare il proprio indebitamento.

Il fatto che in due mesi il tasso sia dovuto aumentare del 62,5% non è una gran bella notizia. Significa che le spese per interessi sul nostro debito aumentano. E considerando che abbiamo un debito al 134% del PIL, e un PIL a circa 1,8 miliardi di euro, significa che siamo indebitati, a spanne, per circa 2.400.000.000.000 (leggasi duemila-quattrocento-miliardi) di euro.

Se il rendimento al quale è necessario collocare i nostri titoli di debito per convincere i mercati ad acquistarlo salisse stabilmente, in media, di un punto percentuale, significherebbe dover pagare, per maggiori interessi, circa 24 miliardi in più ogni anno. Con buona pace di coloro che sognano ancora di poter trovare le risorse per finanziare il reddito di cittadinanza, la flat tax, la riforma della legge Fornero, etc.

Insomma, può darsi che abbia ragione di Maio, che cioè agli italiani dello spread (ossia quanto aumenta il rendimento dei nostri titoli di debito rispetto a quello tedesco, il più basso e stabile, oggi allo 0,34%) non interessi affatto. Basta solo essere sicuri che capiscano che il suo aumento richiede ulteriori risorse pubbliche, e che questo diminuisce la possibilità di finanziare altre spese.

Se poi gli italiani davvero se ne infischieranno dello spread, una volta capito che a fronte di un bicchiere mezzo pieno c’è sempre anche un bicchiere mezzo vuoto (e che sono sempre e comunque loro a pagare il costo di quel bicchiere), lo vedremo alle prossime elezioni.

Nel frattempo, aspettiamoci (mezzo-felici, naturalmente) ulteriori rialzi dello spread e nuova speculazione contro il debito italiano. Draghi bloccò la speculazione contro l’euro con la semplice, perentoria, affermazione del luglio 2012: “faremo tutto il necessario per salvare l’euro; e credetemi, sarà sufficiente”. Chissà che i mercati, adesso, non finiscano per credere di più a Salvini e alla sue dichiarazioni: “l’euro non è irreversibile, al contrario di quel che dice Draghi”.

Il bicchiere mezzo pieno

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