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Negli Stati Uniti la questione anti-Trump del momento è la decisione delle Casa Bianca di togliere la security clearence all’ex direttore della Cia John Brennan: il presidente ha spiegato la scelta con poche parole rilasciate al Wall Street Journal, “questa gente ha guidato” la “caccia alle streghe”, ossia l’inchiesta sulle interferenze russe durante le presidenziali, e le potenziali collusioni del comitato che sosteneva Donald Trump, nonché i possibili atti di ostacolo al corso della giustizia perpetrati dalla presidenza.

La vicenda rischia di intaccare i basamenti democratici, anche se passa tra l’opinione pubblica senza eccessiva attenzione. Coinvolge invece profondamente il corpo dirigente, sia politico sia militare, e ovviamente il mondo dell’intelligence, perché di questo genere di decisioni potrebbero essercene altre in arrivo – forse nove, finite sempre con la stessa ottica sulla lista dei nemici del presidente: una mossa a là Nixon, chi critica il presidente sull’affare Russia finisce punito, e peggio tocca a chi ha svolto un ruolo nell’inchiesta e può essere attaccato perché fuori dal giro ufficiale e operativo.

Tre giorni fa, sono circolate due versioni leggermente diverse di una lettera firmata da tutti gli ex direttori della Cia, da Ronald Reagan in poi. Gli alti funzionari hanno fatto qualcosa che non avrebbero mai immaginato di fare: in un unicum nella storia americana, hanno apertamente criticato il presidente. I nomi dei firmatari sono eccellenti: c’è William Webster (che ha lavorato per la Cia sotto l’amministrazione Reagan e George H.W. Bush), Robert Gates (George H.W. Bush), George Tenet (Clinton e George W. Bush), Porter Goss (George W. Bush), John Hayden (George W. Bush), Leon Panetta (Obama) e David Petraeus (Obama).

La lettera inizia così: “Come ex alti funzionari dell’intelligence, ci sentiamo in dovere di rispondere sulla scia delle osservazioni e delle azioni maleducate e senza precedenti da parte della Casa Bianca in merito alla rimozione delle autorizzazioni di sicurezza a John Brennan”. Gli alti funzionari di Langley (una delle lettere è stata firmata da 60 ex agenti, tra cui capistazione e quadri dirigenti) sostengono che il presidente non deve per forza essere d’accordo con le opinioni espresse – in questo caso da Brennan, che domenica in tv, su “Meet the press”, ha promesso di portare Trump in tribunale – ma è impensabile creare un clima in cui un analista si senta di dover compiacere la Casa Bianca prima di esternare i risultati del proprio lavoro.

Tutto l’opposto della dottrina culturale del disaccordo, nata agli interni degli uffici dell’intelligence americane di creare posizione differenti e coltivarle come forza analitica.

Nella lettera i funzionari hanno evitato di citare Trump direttamente, perché in molti temevano che poi il presidente potesse usarla per cavalcare l’ondata retorica con cui infiamma i suoi fan a colpi di “Deep state”: Trump sostiene che c’è uno stato profondo che sta lavorando contro di lui, una cospirazione composta da politici e servizi deviati, che lo vogliono estromettere dalla presidenza (Trump se l’è presa con i suoi “nemici oscuri” anche per la parata militare che avrebbe voluto, saltata per via dei costi). È una fiaba da film nemmeno troppo articolato e fantasioso, piuttosto classica per un tipo di governo populista che punta al complotto per far slalom fra le critiche, che piace moltissimo al suo elettorato.

Secondo l’analisi settimanale di Sam Vinograd della CNN, la decisione di Trump su Brennan è anche “un regalo di Natale anticipato” a Vladimir Putin: il presidente russo in effetti calca da tempo la lettura della crisi nei rapporti tra Russia e Stati Uniti come conseguenza di una divisione interna a Washington. E cerca, attraverso le operazioni di info-war viste già alle presidenziali e continuamente denunciate, di fare in modo di approfondire queste divisioni, magari minando la fiducia nelle istituzioni interne americane.

Nel caso, Mosca e i suoi bot potrebbero sfruttare la situazione – la revoca della clearence a Brennan, ma più in generale i continui attacchi di Trump alla sua intelligence – diffondendo storie e teoria su questa fantomatica lotta di Trump al Deep state, entità oscura invece sostenuta da democratici ed élite varie. D’altra parte, i minions di Putin potrebbero far passare pure altre ricostruzioni, sempre nell’ottica di creare divisione, a sostegno della posizione dei democratici, che contestano al presidente di non aver consultato gli esperti prima di revocare le autorizzazioni all’ex direttore.

Tre giorni fa, Putin era in Austria, invitato speciale al matrimonio della ministro degli Esteri Karin Kneissl, nominata a dicembre dal partito filorusso di estrema desta FPÖ, che fa parte della coalizione di governo: si tratta di un partito dove alcuni militanti si dicono nostalgici del Terzo Reich e con cui Russia Unita di Putin ha stretto un alleanza politica, del tutto simile a quella che ha con la Lega di Matteo Salvini.

In questi giorni il governo austriaco – che alcuni firmatari del contratto cui l’Italia viene governata considerano un modello da seguire – perché si è tornato a parlare dei raid che agenti della polizia (austriaca) hanno condotto negli uffici dell’intelligence (austriaca). Incursioni senza preavviso con cui hanno portato via materiale secretato, ma anche incursioni forzate nelle case dei funzionari dei servizi.

Secondo un funzionario di un intelligence europea sentito dal Washington Post, quello che è successo in Austria ha interrotto alcuni cooperazioni internazionali, perché le agenzie di altri paesi non si sento sicure a condividere informazioni con gli austriaci, col rischio che finiscano trafugate e/o “in mani sbagliate”.

Il FPÖ ha il controllo del ministero degli Interni, dove ha sede la principale agenzia di intelligence austriaca, la BVT, che in questi ultimi anni si è occupata di temi non proprio compiacenti al governo, per esempio l’ingerenza russa all’interno delle dinamiche politico-sociali in Austria, oppure le attività di gruppi violenti di estrema destra (le due cose a volte si sovrappongono). In un raid di febbraio, le informazioni su queste indagini sono state portate via dai poliziotti: il ministro dell’Interno, Herbert Kickl, ha difeso pubblicamente quei rastrellamenti, dicendo che erano stati regolarmente autorizzati da un giudice (il mandato però cita ragioni “prosaiche”, che sembrano futili pretesti, e altre più fantasiose, tipo un complotto ai danni del nordcoreano Kim Jong-un).

In molti credono che la più tetra delle ipotesi sia la più verosimile: l’FPÖ starebbe cercando di stravolgere gli organigramma delle intelligence per instaurare nelle agenzie lealisti e fidati, mettendo le mani su fondamentali istituzioni che devono garantire gli equilibri democratici al di sopra della politica. Ossia, quello che succede in Austria è il parossismo dello scontro tra Trump e le intelligence americane.

 

Trump contro le intelligence, il regalo a Putin, e il parossismo austriaco

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