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La Fiat di oggi non è più quella che molti italiani ricordano. È cambiata nella struttura, nella dimensione economica, nell’estensione geografica e nel peso che ha all’interno del settore automobilistico mondiale. Basta considerare il profilo del nostro gruppo, in particolare delle attività automobilistiche, nel 2004 e nel 2012, per capire quanto profondo sia stato questo cambiamento.

Nove anni fa la Fiat era un’azienda con un orizzonte limitato, che guardava soltanto all’Europa. La presenza all’estero era circoscritta al sud America, in pratica al solo Brasile. Oggi siamo un gruppo con una presenza ampia e diversificata sui mercati di tutto il mondo. Allora il nostro fatturato era di 27 miliardi di euro, nel 2012 è più che triplicato, arrivando a 84 miliardi. Nel 2004 i dipendenti nel mondo erano poco più di 100mila, oggi sono raddoppiati a 215mila. In termini assoluti, in meno di un decennio, il numero dei lavoratori Fiat in Europa è aumentato di circa 15mila persone. Nel 2004 eravamo un produttore di auto dalle dimensioni modeste, che vendeva circa 1 milione e 800mila unità l’anno. Nel 2012, insieme a Chrysler, ne abbiamo vendute più di 4,2 milioni e siamo diventati il settimo costruttore mondiale. Ma soprattutto, la Fiat di allora era un’azienda in profondo rosso, le cui perdite, a livello operativo, erano di oltre un miliardo di euro l’anno, tutte concentrate in Europa.

Oggi siamo un gruppo solido, capace di generare significativi profitti, nonostante le perdite collegate ai marchi generalisti in Europa. Negli ultimi nove anni abbiamo creato dalle potenziali ceneri di un costruttore italiano un gruppo automobilistico con un orizzonte globale. Lo abbiamo fatto attraverso passaggi successivi. Il primo, avviando un processo di risanamento, a partire dal 2004, quando abbiamo cambiato l’azienda dall’interno, nella struttura e nella cultura, ridandole il senso della sfida e della competizione che in qualche modo si erano persi. Poi, di fronte alle difficoltà crescenti del mercato europeo, abbiamo deciso, in anticipo rispetto alla maggior parte dei nostri concorrenti, di rafforzare la nostra presenza nell’America Latina. E poi di intraprendere una straordinaria avventura con la Chrysler, un’azienda che noi abbiamo ricostruito dalle ceneri del tracollo dell’industria automobilistica americana. Tutto ciò assumendoci dei rischi enormi. Siamo andati a cercare altrove quei profitti che chiaramente non era più possibile ottenere in Europa. Era l’unica strada per preservare il futuro della Fiat. Nonostante questo, la Fiat è considerata ancora da molti, nel nostro Paese, un’azienda prettamente italiana, che si trascina dietro tutti i pregiudizi di 20 o più anni fa. Pregiudizi sulla qualità dei prodotti, sull’ingerenza in politica, e quella – ancora più assurda – di vivere alle spalle dello Stato, con soldi e aiuti pubblici.

La verità è che dal 2004 alla fine del 2012, Fiat e Fiat Industrial hanno destinato all’Italia, per investimenti e attività di ricerca e sviluppo, 23,5 miliardi di euro. A fronte di questo enorme sforzo, abbiamo ricevuto agevolazioni pubbliche, previste dalle norme italiane ed europee, pari a circa 742 milioni di euro. Agevolazioni peraltro disponibili a tutte le aziende europee. Questo significa che abbiamo creato lavoro e benessere, e che continuiamo a investire e credere nell’Italia. Forse, però, il ritmo del cambiamento che la Fiat ha seguito è stato così veloce che, in qualche modo, ha contribuito ad ampliare la distanza col Paese. E a quanto pare noi non siamo stati in grado di trasmettere agli italiani il senso di questo cambiamento. Ma se la Fiat si è trasformata ed è cresciuta nel mondo, è stato solo per porre fine a un isolamento che ne avrebbe pregiudicato il futuro. Lo abbiamo fatto per diventare più forti, più capaci, più consapevoli delle nostre possibilità. E questa non può essere una colpa. Se oggi ci fosse ancora la Fiat di una volta, avremmo già portato i libri in tribunale da un pezzo.

La Fiat ha compiuto scelte coraggiose e di rottura col passato semplicemente per garantire ai nostri stabilimenti quelle condizioni minime di competitività con i nostri concorrenti. Abbiamo sottoscritto un nuovo contratto di lavoro, concordato con la maggior parte dei sindacati e approvato dai nostri lavoratori. Mi rendo conto che quando si introduce un cambiamento non ci si può aspettare un consenso unanime. Ma non si fanno gli interessi dei lavoratori difendendo un sistema di relazioni industriali che non è in grado di garantire che gli accordi stipulati vengano effettivamente applicati. Condivido che i diritti di tutti, a prescindere dalla categoria sociale di appartenenza, costituiscono la base di una comunità civile. Ma oggi viviamo in un’epoca in cui si parla sempre e solo di diritti. Il diritto al posto fisso, al salario garantito, al lavoro sotto casa; il diritto a urlare e a sfilare; il diritto a pretendere. Lasciatemi dire che i diritti sono sacrosanti e vanno tutelati. Se però continuiamo a vivere di soli diritti, di diritti moriremo. Perché questa “evoluzione della specie” crea una generazione molto più debole di quella precedente, senza il coraggio di lottare, ma con la speranza che qualcun altro faccia qualcosa. Una specie di attendismo che è perverso ed è involutivo. Per questo credo che dobbiamo tornare a un sano senso del dovere, consapevoli che per avere bisogna anche dare.

Bisogna riscoprire il senso e la dignità dell’impegno, il valore del contributo che ognuno può dare al processo di costruzione, dell’oggi e soprattutto del domani. Malgrado stiamo operando in un contesto economico negativo, non vogliamo mettere in discussione gli investimenti annunciati. Un Paese dove ogni certezza viene messa in dubbio, dove gli accordi si firmano, ma poi si possono anche non rispettare, dove una norma può essere letta in un modo ma anche nel suo contrario, dove la volontà di una maggioranza è negata da un’esigua minoranza… Tutto questo è un caso tristemente unico al mondo ed è un deterrente per chiunque voglia venire a investire in Italia.

 (Estratto del discorso tenuto il 9 luglio 2013 presso lo stabilimento Sevel di Atessa (Ch). Per gentile concessione dell’autore)

(Articolo pubblicato sul numero 89 della rivista Formiche – febbraio 2014)

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