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La violenza, si sa, è una brutta bestia. Anche se, come ammaestrava Stanley Kubrik in Arancia meccanica, il fenomeno si declina in moltissimi modi. Purtroppo, in Italia vediamo ascendere alle cronache continui fatti brutali che attraversano la vita privata di tante persone. La violenza politica, però, rappresenta un malanno speciale, che richiede ovviamente un controllo eccezionale, anche educativo, da parte di tutti.

I torbidi fatti di Torino della scorsa settimana, d’altronde, si commentano da soli. Anche perché sono le immagini a rivelarne immediatamente il tratto dirompente, spaventoso ed aberrante. La causa scatenante dell’episodio è stata la convention di CasaPound che ha attivato una reazione di piazza sfrenata da parte degli antagonisti dei centri sociali, i quali hanno messo in piedi una vera e propria guerriglia urbana con le forze dell’ordine, chiamate a garantire unicamente la sicurezza pubblica dei torinesi e l’incolumità fisica, nonché la libertà di espressione, della citata formazione politica di estrema destra.

La vicenda tuttavia, che ha generato lo sconcerto collettivo e, a mio modo di vedere, il giusto sdegno, è la presenza di una docente in prima fila, la quale non solo era presente al corteo, ma accompagnava la sua condotta con urla e incitazioni esplicite alla violenza contro i poliziotti. L’agenzia riporta frasi tremendamente gravi: “Vigliacchi, mi fate schifo, dovete morire”.

La buona notizia è che il Miur ha deciso di prendere provvedimenti disciplinari, acquisendo ulteriori informazioni sulla donna, residente a Torino, e frequentatrice dei cosiddetti ambienti antagonisti della città.

È essenziale essere chiari: non si trattava di un’attività scolastica. Quindi non vi era l’obbligo morale di tenere la politica attiva fuori da ogni coinvolgimento privato. Un professore logicamente, come ogni cittadino, può fare politica, se vuole. Il fatto però che una persona incaricata di formare ed educare dei giovani si esprima in modo così radicalmente aggressivo contro lo Stato e la libertà altrui, questo sì, non è assolutamente tollerabile, e per nulla ammissibile di per sé per il ruolo e la responsabilità professionale ricoperti.

Anche perché bisogna ripartire esattamente dalla formazione scolastica, oltre che da quella familiare, per disinnescare questi focolai di brutalità che stiamo vedendo diffondersi come degenerazione civica in tutta la società, infondendo il valore di un’etica del pensiero e della parola, contrario al disvalore dell’ignoranza e dell’uso della forza. E in tale opera persuasiva tanto difficile è cruciale che lo Stato sia solidale con se stesso proprio per togliere la pur minima legittimazione pubblica al fenomeno e condannare così in modo perentorio ogni degenerazione barbarica di questo genere. A questo discorso generale si aggiunga che nel caso di un docente semplicemente tutto ciò è reso insensato dallo stesso compito che la società gli affida come missione morale.

Alla fin fine, una circostanza simile attesta inesorabilmente una sostanziale incompatibilità tra la persona e la missione pedagogica che dovrebbe adempiere.

Perché è giusto il pugno di ferro del Miur che condanna la violenza in cattedra

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