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La prima parola che un bambino impara a pronunciare con entusiasmo e innato senso di sfida è “no”. I no ci accompagnano per tutta la vita, anche se tendiamo a ricordare quelli ricevuti e non i tantissimi rifilati agli altri. Sono anche importanti, come quelli pronunciati dall’Italia nelle ultime ore al tavolo di Bruxelles. A patto di non considerarli un fine, una dimostrazione di esistenza. Perché, anche al Consiglio dei capi di Stato e di governo, a vincere sono inevitabilmente i “ma anche”, le mani tese e non i pugni battuti sul tavolo.

Insistendo con i no, l’Italia avrebbe avuto l’unico risultato di farlo saltare quel tavolo. Ci saremmo ritrovati del tutto soli, a fronteggiare un problema ingestibile da singoli stati. Si dirà: è grazie allo stop di ieri sera imposto da Conte – dunque dal no, peraltro anticipato dal presidente del Consiglio, arrivando a Bruxelles – se gli altri leader sono stati costretti a inventarsi una linea e una trattativa. Per tacere dello show di Macron contro lo stesso Giuseppe Conte o delle provvidenziali battute del premier svedese a stemperare la tensione. Una lettura comunque interessante e non priva di punti di forza, ma ad esclusivo uso interno. Perfetta per sostenere la narrazione di un governo che “finalmente fa sentire la voce dell’Italia in Europa” e di un Paese, che non si presenta più “con il cappello in mano”. Le stesse cose che diceva Matteo Renzi. Potete controllare.

La lettura che proviamo a fare è forse meno scoppiettante e toglierà qualche soddisfazione ai pasdaran del “cambiamento”, ma invita a osservare la realtà delle cose non solo con lenti italiane. Senza la determinante volontà della cancelliera tedesca, Angela Merkel, di non tornare a mani vuote a Berlino e affrontare una quasi certa crisi politica al buio, non si sarebbe ottenuto neppure ciò che è stato faticosamente portato a casa. Senza il decisionismo del presidente francese, sì proprio lui, il presunto grande nemico dell’Italia Emmanuel Macron, di arrivare comunque a un risultato, per puntellare il proprio fronte interno, nuovamente sotto offensiva della Le Pen, non si sarebbe ricominciato a trattare, dopo lo scazzo (ops) al tavolo europeo. Insomma, ficchiamoci bene in testa che non siamo gli unici a trattare, con un occhio e mezzo alla politica interna, alle fluttuazioni dei sondaggi e agli equilibri delle coalizioni. In una discussione a 28, conviene riconoscere le similitudini, molto prima che le differenze. Altrimenti, si rischia di fare il gioco di chi non ha quasi punti di contatto con noi e offre un sostegno quanto meno sospetto.

E così, arriviamo al contenuto del faticoso accordo notturno di Bruxelles (chissà perché si debba sempre far notte, come ai ruggenti tempi delle trattative sindacali italiane, con inevitabile firma all’alba, volti sfatti e barbe lunghe): chi ha veramente vinto? Noi, inteso come Italia, Francia, Spagna, Grecia e Germania, o loro, il famigerato gruppo di Visegrad, che sta all’Europa unita come una grigliata d’estate ai vegani?

Ognuno vi racconterà la sua verità, che poi è solo la propria lettura di quanto accaduto a Bruxelles, ma uno sbilanciamento a favore di Visegrad a noi appare evidente. I punti teoricamente a favore dei Paesi mediterranei, centri di raccolta negli Stati Ue e punti di smistamento in terra africana sono su base volontaria. Tradotto, dovremo andare a convincere (e pagare) Stati che non hanno la benché minima volontà o capacità di darci una mano. Parliamo di Niger, Ciad, Libia, Algeria o Marocco, diversissimi fra loro, ma accomunati da fulminei no (ci risiamo…) alle richieste dell’Ue. Pur coinvolgendo l’Onu e trattando in modo efficace e riservato – chiamate Minniti e Maroni per consigli e indicazioni – l’impresa appare titanica. Sempre che si trovi qualcuno con cui trattare, come nel caso della Libia (chi comanda nel desertico Fezzan?).

Fatto questo, i volenterosi Paesi europei richiamati dalla Merkel dovranno trovar modo di rendere stabile la soluzione faticosamente trovata per la Lifeline. Dalle parti di Visegrad, invece, si è ottenuto di procedere alle modifiche del Trattato di Dublino solo all’unanimità e non a maggioranza qualificata. Gli “amici” magiari e compagnia bella si sono portati a casa un potere di veto assoluto, nel momento in cui l’Unione dovesse provare a superare Dublino. Un no grande come una casa, sbattuto sulla nostra faccia. Uno di quelli che ti fanno rimpiangere la diplomazia felpata e pentire dei pugni sul tavolo.

Niente pugni sul tavolo. Il Consiglio europeo dei "ma anche"

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