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La notizia ha fatto in fretta il giro della rete: Asmae Belfakir, 25 anni, praticante avvocata di origine marocchina, si è allontanata da un’aula del Tar dell’Emilia Romagna in quanto indossava l’hijab, il velo che lascia scoperto solo il volto della donna. Asmae stava seguendo con una collega un’udienza in cui si discuteva di un ricorso in materia di appalti quando il presidente del tribunale Giancarlo Mozzarelli l’avrebbe invitata a togliersi il copricapo altrimenti avrebbe dovuto lasciare l’aula: la giovane si è rifiutata ed è uscita. All’ingresso il giudice aveva fatto esporre un cartello recante la scritta “chi interviene o assiste all’udienza non può portare armi o bastoni e deve stare a capo scoperto e in silenzio”. Inoltre, sempre a leggere i quotidiani, il giudice avrebbe spiegato, mentre la praticante lasciava l’aula, che occorreva rifarsi “al rispetto della nostra cultura e delle nostre tradizioni”. Nessuna dichiarazione da parte del dottor Mozzarelli.

Diciamolo subito, forte e chiaro. Stentoreo, ove servisse. Se – e solo se – le cose fossero andate come riportato dai media, alla praticante sarebbero dovute delle immediate scuse. In primo luogo perché il divieto – di buon senso e legittimo – di non indossare cappelli e non portare armi nella sede dello Stato in cui si amministra la giustizia non può certamente includere un velo che, in ogni caso, lascia scoperto il volto e rende, dunque, identificabile l’individuo. La disposizione dell’articolo 470 del codice di procedura penale, peraltro, secondo cui la disciplina all’interno delle aule di tribunale sono stabilite dal presidente dell’udienza, anche avvalendosi della forza pubblica, non è certamente applicabile al caso in questione, che con la necessaria disciplina della sessione nulla ha a che fare. Per tacer del fatto che, in ogni caso, tali norme non possono in nessun caso prevalere contro quanto disposto dalla nostra Costituzione, secondo cui non solo “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione […] di religione” (art. 3), ma “hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume” (art. 19). Portare liberamente e senza costrizioni l’hijab, dunque, in un contesto pubblico, non si pone in contraddizione alcuna con la nostra Carta e, conseguentemente, l’invito a rimuovere il velo costituirebbe un gravissimo vulnus delle libertà fondamentali dell’individuo. A meno di non voler intimare alle suore che capitassero in un’aula di tribunale di scoprirsi il capo per la violazione dell’ordine pubblico e del buon costume: ci sarebbe di che divertirsi, senza dubbio.

Ma non basta. Ove – e solo ove – venisse accertato l’effettivo riferimento in pubblico da parte del giudice, nell’esercizio delle sue funzioni, a presunte culture e tradizioni Italiane, il fatto avrebbe del grottesco. E sarebbe censurabile da ogni punto di vista. Nei tribunali si amministra la giustizia, in nome del popolo ed in ossequio alla legge, di fronte alla quale tutti i cittadini, a prescindere dalla loro origine, sono eguali. Sostenere in una sede pubblica, propria dello Stato Italiano, che cultura e tradizione (ma quali, poi, verrebbe da chiedersi) prevalgono su chiare e limpide disposizioni costituzionali e di legge è una tale aberrazione che farebbe sorridere, se non avesse connotati tragici, degni della bufala del fantomatico piano Kalergi. Secondo le agenzie, il presidente del Tar, Giuseppe Di Nunzio, avrebbe dichiarato che la dottoressa Belfakir potrà partecipare a tutte le udienze, indossando senza problemi il velo, mentre  il Presidente del Consiglio di Stato, Alessandro Pajno, avrebbe incaricato il Segretario Generale di richiedere al Presidente della Sezione una relazione circostanziata sull’accaduto ai fini di una compiuta valutazione dei fatti. Come sempre, parleranno le carte. A valutare i fatti come descritti, tuttavia, mancano davvero le parole.

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