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Arriva dagli Stati Uniti la minaccia al controllo di Vincent Bollorè, patron di Vivendi (nella foto), su Tim. Ieri in tarda serata il board della società tlc ha approvato il piano industriale che include lo scorporo della rete, semi-concordato con il governo italiano, tre settimane fa ma che ora rischia di dover fare i conti con il mutato scacchiere politico italiano. Quasi dodici ore di cda scandite dalle voci di un rastrellamento di azioni Tim da parte del fondo americano Elliott. Circa il 6% dell’ex monopolista accumulato in poche ore con l’evidente obiettivo di alzare un muro contro i francesi di Vivendi colpevoli, a detta dello stesso fondo, di una gestione “migliorabile”. E non è tutto perché il fondo si è riservato l’opzione di salire ancora nel capitale. Ma chi è Elliott.

UN PREDATORE AMERICANO

In Italia Elliott, fondato nel 1977 da Paul Singer e ora affidato al figlio Gordon, è diventato celebre per aver finanziato la cordata cinese che ha rilevato da Silvio Berlusconi il Milan, con un prestito da 303 milioni di euro che ha sbloccato la trattativa con Fininvest. Una goccia nel mare dei suoi investimenti, pari a 34 miliardi di dollari. La strategia di Elliott è abbastanza singolare. Il fondo statunitense con base a New York, si muove così: individua situazioni al limite, una azienda in difficoltà, soci che litigano e non si mettono d’accordo, e lavora per trarne il massimo vantaggio economico possibile. Oppure investe in società sottostimate per estrarne valore. Un esempio, il caso dell’investimento in Ansaldo Sts: l’allora gruppo Finmeccanica (ora Leonardo) vende la società di segnlazione ferroviaria ai giapponesi di Hitachi assieme ad Ansaldo Breda (la fabbrica che produce i treni del Frecciarossa): Eliott sostiene che il prezzo a cui è stata ceduta Ansaldo è sottostimato e sale fino al 24% del capitale per impedirne il delisting.

DAL MILAN A BUENOS AIRES

Ma quello che spiega ancora meglio cosa sia Elliott è il tasso applicato alla parte più consistente del prestito, garantito da un pegno sulle azioni del Milan: l’11,5%. Un rendimento altissimo, tipico di un fondo speculativo e sofisticato, che va a caccia di occasioni di investimento e società da valorizzare, su cui puntare (e moltiplicare) i soldi dei suoi facoltosi sottoscrittori. Altro caso emblematico della tenacia e della durezza negoziale del fondo, uno dei più temuti a Wall Street, è il caso dei tango bond argentini, rastrellati a prezzi stracciati dopo il default del 2001 e oggetto di una lunga battaglia per ottenerne il rimborso a prezzo pieno, che ha portato Elliott a fare causa al governo argentino nei tribunali di mezzo mondo, ottenendo anche il sequestro di una nave ormeggiata al largo del Ghana. Fino a ricevere, dopo quindici anni, 2,4 miliardi di dollari, quasi 4 volte l’investimento iniziale.

SPIN OFF IN VISTA

Fin qui il blitz Usa nel capitale di Tim. Che poche ore fa, come detto, ha varato un ambizioso piano industriale, il cui fulcro è l’atteso scorporo della rete. Il progetto “prevede la creazione di un’entità legale separata (Netco) controllata al 100% da Tim, proprietaria della rete di accesso (dalla centrale alla casa dei clienti) e di tutta l’infrastruttura (edifici, apparati elettronici e sistemi It) e dotata del personale necessario per fornire servizi all’ingrosso in maniera indipendente”, si legge nella nota diffusa al termine del board. Più nel dettaglio, la società che vedrà la luce dopo lo spin-off  “avrà le risorse per mantenere una altissima qualità della rete e sostenere il Paese nel raggiungimento degli obiettivi dell’Agenda Digitale Europea 2025 sulla banda ultra larga”. In pratica, la società della rete camminerà sulle sue gambe e non avrà bisogno di altre risorse (e dunque partner) se non quelle provenienti dalla stessa ex Telecom. Naturalmente, l’intera operazione avverrà senza impattare sul perimetro di Tim e “nel pieno rispetto della golden power” che il governo ha già applicato su Tim a ottobre scorso.

L’INCOGNITA GOVERNO

Attenzione però. Perché bisogna nel bene e nel male fare i conti con la politica, sempre. L’intesa preliminare sullo spin off della rete è avvenuta con un governo a guida Pd. Ma ora le carte in tavola potrebbero cambiare. I Cinque Stelle, per esempio, non hanno mai nascosto il loro orientamento favorevole a una nazionalizzazione della rete. Una visione in aperto contrasto con quella del finanziere bretone, che punta invece a mantenere la proprietà privata dell’infrastruttura. Più in generale, Lega e il M5S si sono in passato espressi duramente contro le scalate dei francesi in terra italiana e contro le privatizzazioni, e a favore di un ritorno dello Stato nelle aziende strategiche del sistema Italia. Sembra facile prevedere che con l’arrivo di un nuovo governo e con paventato ricambio dei vertici in alcune partecipate chiave, come la Cassa Depositi e Prestiti, ripartiranno le contrapposizioni sulla proprietà della rete e sullo sviluppo della banda larga.

IL PIANO INDUSTRIALE

In tutto ciò è arrivato il piano industriale della società Tlc.  Il quale punta una forte crescita del cash flow consolidato nel triennio, per un totale cumulato di circa 4,5 miliardi di euro e conferma per il 2018 una significativa riduzione del rapporto debito netto/ebitda a circa 2,7 volte in costante diminuzione nel 2019 e nel 2020. Tim prevede inoltre di “raggiungere nel segmento consumer oltre 5 milioni di nuovi clienti con la fibra grazie a nuovi contenuti video, musica e gaming, di cui molti esclusivi”. Sulla telefonia mobile, nelle intenzioni della società, la penetrazione a tecnologia lte salirà dall’attuale 76% a oltre il 95% nell’arco di piano. Tim punta, inoltre, “a triplicare i clienti TimVision e a raddoppiare la clientela convergente Fisso-Mobile”.

 

 

Vincent Bolloré

La lunga marcia di Tim verso la rete, tra le incognite Elliott e Cinque Stelle

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