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Oscurata dalla ben più rumorosa, e violenta, ondata di manifestazioni in Iran, sta passando quasi inosservata la protesta contro il caro vita che ha preso piede nelle strade e nelle piazze della Tunisia, l’unico Paese nordafricano uscito integro, sotto il profilo istituzionale e democratico, dalle cosiddette “primavere arabe”. A differenza delle sommosse che crucciano il governo di Hassan Rohani però, gli scontri che anche la scorsa notte hanno costretto l’esercito tunisino a schierarsi non hanno nel mirino il governo in sé, ma le politiche di austerity che il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ha imposto all’esecutivo guidato da Youssef Chahed, dopo che al prestito da 2,9 miliardi di dollari concesso nel 2016 dall’istituzione internazionale a Tunisi non è seguito un taglio sostanziale della spesa pubblica.

Così, dinnanzi a un deficit commerciale che ha raggiunto il picco di 5,8 miliardi di dollari nei primi 11 mesi del 2017 e a una ininterrotta picchiata della valuta tunisina, il dinaro, il governo di Chahed è stato costretto a inserire nella nuova legge finanziaria per il 2018 nuove, dolorose imposte sui beni di prima necessità come frutta e vegetali, zucchero, benzina, internet. È stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso, in un Paese dove la disoccupazione giovanile è al 25%, lo stipendio medio pro-capite è di 400 dinari (una somma che non garantisce la sussistenza) e le assunzioni nel settore pubblico sono congelate da mesi.

Le proteste sono entrate nel vivo martedì. E forse non è un caso: come ricorda il New York Times, ricorreva infatti l’anniversario dalla morte di Mohamed Bouazizi, il fruttivendolo ventiseienne che, umiliato e percosso dalle forze dell’ordine, si diede fuoco nel 2010 nella cittadina di Sidi Bouzid come gesto di sfida al regime di Zine el-Abidine Ben Ali. Sarà una coincidenza, ma tanto è bastato per conferire alle proteste di piazza di chi è stremato alla fame e non ha intenzione di accettare il rincaro dei prezzi un’accezione marcatamente politica. Sui muri di centri come Beja, Testour, Meknassi e Jelma è apparsa la scritta “Cosa stiamo aspettando?” accompagnata dal disegno di un orologio.

Si conta già un morto. Lunedì un uomo di 55 anni ha perso la vita a Tebourba, città a 40 chilometri dalla capitale. Investito da un mezzo dell’esercito, gridano i manifestanti. Per le forze dell’ordine l’uomo è invece deceduto per una crisi respiratoria, forse dovuta all’inalazione del gas lacrimogeno. Nella notte fra martedì e mercoledì gli scontri si sono fatti più violenti, anche per l’infiltrazione di facinorosi e vandali, molti dei quali minorenni. A Nefza la caserma di polizia è stata data alle fiamme. Nella notte la sinagoga della città di Djerba ha rischiato di fare la stessa fine, colpita da bombe incendiarie, ma è stata salvata dall’intervento della polizia. Gli ultimi dati confermati oggi dal portavoce del ministero dell’Interno Khelifa Chibani parlano di 206 arresti e 46 agenti feriti.

Intanto il premier Chahed ha cercato di correre ai ripari. “La gente deve capire che si tratta di una situazione straordinaria e che il loro Paese sta avendo difficoltà, ma crediamo che il 2018 sarà l’ultimo anno faticoso per i tunisini”. Rassicurazioni ritenute insufficienti dai partiti di opposizione. “Resteremo nelle strade e aumenteremo il ritmo delle proteste finché l’ingiusta legge finanziaria non sarà stracciata” ha dichiarato il leader del Partito popolare tunisino Hamma Hammami, citato da Reuters. Questo giovedì tutti i partiti di opposizione, ha confermato alla stampa, si riuniranno per “coordinare i movimenti”.

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