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Volano scintille fra Ankara e Washington. Mehmet Ahkan Atilla, 47 anni, banchiere turco arrestato a New York lo scorso marzo con cinque capi di accusa, fra cui truffa bancaria e corruzione, è stato condannato dalla Corte federale distrettuale di Manhattan e rischia fino a 30 anni di reclusione. Secondo le indagini dei pm americani Atilla, direttore esecutivo della Halkbank, banca controllata dallo Stato turco, sarebbe al centro, assieme ad altri 7 colleghi, di un complesso sistema di riciclaggio di denaro e fondi miliardari di petroldollari che ha permesso per anni all’Iran di aggirare le sanzioni statunitensi.

Dalla confessione del ricco trader turco-iraniano Resa Zarrab, 34 anni, è emerso il quadro di una vasta rete di corruzione che vede implicate tanto la Hankbank quanto altri istituti bancari di Ankara e il governo di Recep Tayyip Erdogan. Zarrab, che dal giro di riciclaggio ha guadagnato circa 150 milioni di dollari, riporta il New York Times, avrebbe raccontato di un vero e proprio ordine impartito nel 2012 dall’allora primo ministro Erdogan per coinvolgere le banche turche nel meccanismo di evasione del denaro iraniano.

Non sorprende dunque che il caso giudiziario sia stato seguito in questi ultimi mesi con estrema attenzione dal governo di Ankara. Che ora, appreso della condanna, grida allo scandalo e minaccia ripercussioni. “Un verdetto scandaloso di un caso scandaloso” ha tuonato giovedì il portavoce di Erdogan. Venerdì il presidente ottomano è intervenuto in prima persona sulla vicenda, confidando ai reporters mentre lasciava il Paese per la Francia, prima visita ufficiale del 2018: “Se questa è l’idea di giustizia degli Stati Uniti, sono dispiaciuto per il mondo”, per poi aggiungere, scrive l’agenzia cinese Xinhua, che “i rapporti bilaterali fra Usa e Turchia stanno perdendo validità” e che negli States è in corso ” una grave serie di complotti”.

La condanna di Atilla è la goccia che fa traboccare il vaso, dopo un anno e mezzo di pesanti frizioni diplomatiche iniziato sotto l’amministrazione Obama quando, all’indomani del fallito golpe militare in Turchia nel luglio del 2016, Erdogan ha chiesto a gran voce, senza ottenerla, l’estradizione di Fetullah Gulen, il chierico musulmano miliardario accusato dal presidente di essere la mente pensante del colpo di Stato. Lo scorso ottobre l’arresto da parte della polizia turca di un funzionario locale del Consolato statunitense ad Istanbul con l’accusa di terrorismo ha provocato uno strappo con l’amministrazione Trump, che per tre mesi ha imposto il blocco dei passaporti.

È improbabile, però, che la condanna del super banchiere turco, che comunque potrà ricorrere in appello, risulti letale per i canali diplomatici fra Ankara e Washington. Il governo Erdogan, pur avendo abbandonato il sogno di entrare nell’Ue dinnanzi alle continue barricate degli Stati membri, è in cerca di una riappacificazione con gli alleati del Vecchio Continente. Né ha intenzione di arrivare a uno strappo definitivo con il principale alleato (e finanziatore) della Nato. “Le relazioni fra Usa e Turchia hanno raggiunto un punto così basso nel 2017 che entrambe le parti hanno intenzione di riprendere il dialogo quest’anno, a prescindere dalla condanna giudiziaria” commenta l’analista politico turco di Hurriyet Daily News Serkan Demirtas. Un’occasione per testare i nervi fra le due parti si presenterà il prossimo 23 gennaio, scrive Xinhua citando fonti diplomatiche turche, quando ad Ankara si riunirà un gruppo di lavoro bilaterale per smorzare i toni sugli ultimi casi giudiziari negli States.

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