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Avvenire pubblica sotto il grande titolo “Giovani e lavoro: ecco le ricette dei partiti” i programmi dei leader politici. Lo stupore a leggere le varie proposte non è tanto nell’inevitabile diversità di approccio alla politica economica, ben nota, quanto in una sorprendente uniformità, avvertita anche dal quotidiano in premessa: tante formule generali, nessuna politica specifica per i giovani.

Addirittura, incredibile ma vero, alcuni interventi non li menzionano mai, come quelli di Grasso, Nannicini e Brunetta. Mentre la Meloni si concentra sui giovani che verranno tra 20 anni, la Grande coalizione moderata di centrodestra e sinistra li condanna all’oblio dividendosi al suo interno solo sul se prorogare o meno la decontribuzione per i neoassunti, mentre Di Maio li include – dobbiamo immaginare – tra i percettori del salvifico e costoso reddito di cittadinanza pur promettendo cali drastici del debito pubblico. Solo Lega e Parisi accennano timidamente al ruolo dell’università e della scuola professionali, ma non è dato comprendere come e per quanto. Spicca ogni tanto la proposta di mandare in pensione “prima” gli anziani, in una visione apocalittica di conflitto intergenerazionale che fa a cazzotti con la realtà italiana, in cui la famiglia rimane una potente e coesa rete di protezione a fronte della mancanza di aiuto dalla politica economica.

Povertà di idee o disinteresse per un club di elettori apparentemente in fuga verso l’estero o che non vota perché disilluso (mai così alto l’astensionismo giovanile come nel 2013)? Le due cose si sostengono a vicenda, in un circolo vizioso micidiale.

Anni addietro provammo a proporre a Monti e Letta (in copia il Presidente della Repubblica di allora) – tramite una petizione firmata da più di 1000 cittadini – una soluzione, rilevando che in assenza di politiche specifiche la disoccupazione giovanile sarebbe cresciuta drasticamente: purtroppo raddoppiò nell’assenza totale di qualsiasi politica mirata (il fallimento di Garanzia Giovani era nell’aria, visto che le imprese non avevano intenzione di assumere comunque, con o senza aiuto). Chiedevamo lo stanziamento di 10 miliardi di euro per un esercito di giovani temporaneamente al servizio della nostra Pubblica Amministrazione con 1000 euro netti al mese, affinché non perdessero motivazione e acquisissero competenze: evidentemente troppo per governi preoccupati di apparire austeri mentre il debito continuava a crescere a causa della recessione che si approfondiva per l’assenza di sostegno all’economia.

Ma non c’è solo questo che andrebbe fatto: lavorare sulle scuole professionali è certamente fondamentale in un Paese dominato (e non è una brutta cosa) da piccole imprese restie ad assumere laureati troppo distanti dal mondo del lavoro. Ma per questo andrebbe attuato un Grande Patto tra Pmi e nuove Università del Lavoro, con ampio sostegno di risorse iniziali da parte del governo. E le Università tradizionali? Lasciate morire per disidratazione, con sempre meno fondi in un mondo globale che premia il pensiero critico e l’innovazione, sconfitte dalla competizione di Atenei europei agili, flessibili e ricchi, meritano investimenti in qualità e taglio degli sprechi sulla base delle performance di collocamento, iscrizioni e vivacità culturale, senza perdere di vista il rapporto con il territorio locale ed evitando di creare università di serie A solo al nord, strategia che allarga la divisione sociale nel Paese.

Le risorse? Ci sono, basta fare una seria spending review, menzionata da Di Maio e da Parisi, che si affretta tuttavia a non riversare i risparmi conseguiti in investimenti pubblici ma in tagli delle tasse, così che la Pubblica amministrazione si sarà pur tolta il gesso della gamba fratturata, ma rimane in coma profondo, incapace di contribuire alla ripartenza del Paese come fanno tutte le Pubbliche amministrazioni del mondo occidentale in cui imprese e Stato lavorano in sinergia, sostenendosi a vicenda in un circolo virtuoso a portata di mano anche dell’Italia.

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