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Lo dico da tempo: in politica non si fanno passi avanti senza farne qualcuno indietro. L’arte del compromesso, pur se declassato retoricamente ad “inciucio”, è l’essenza della politica. Della politica “alta”, quella che è al servizio degli interessi del Paese oltre che dei partiti che li dovrebbero rappresentare. In questo complicato puzzle del dopo voto, quella che prevale è invece la politica “bassa”, quella utile ai partiti e poco o nulla ai cittadini.

Partiamo dai vincitori più evidenti di questa finora inutile (in termini di governabilità) tornata elettorale. I grillini, forti delle loro percentuali, non mollano di un passo né sul nome per Palazzo Chigi, Luigi Di Maio, né sul programma. Gli elettori, dicono, hanno deciso e hanno scelto noi, ogni altra soluzione sarebbe un tradimento della volontà degli italiani. Ma dimenticano, o preferiscono tacerlo, che non hanno ottenuto il voto della maggioranza assoluta degli italiani, che è anzi molto lontana. I loro 10 milioni e mezzo di voti equivalgono a circa il 33 per cento dei votanti, che però è solo un quarto del corpo elettorale tenendo conto che il 27 per cento dei cittadini non si è recato alle urne.
Lo stesso vale più o meno per la coalizione vincente, il centrodestra, nonostante il milione e mezzo di voti in più rispetto al M5s, e ancor più per Matteo Salvini, considerando che la Lega ha raccolto sotto il simbolo che portava il suo nome circa 5,7 milioni di voti. Molti meno di Di Maio, peraltro.

La situazione è bloccata anche per questo. Perché nessuno dei due pretendenti al trono vuole ammettere davvero di essere minoranza nel Paese e la necessità di ricorrere alla nobile arte del compromesso.
Se Di Maio e Salvini (comunque più realista) continueranno a negare questa semplice evidenza, si precipiterà verso un governo lampo per ritornare ad elezioni in tempi brevissimi con una nuova legge elettorale.

Personalmente continuo a non crederci, anche se la deriva porta in quella direzione. Non ci credo perché non penso che parlamentari appena eletti rinunceranno al seggio tanto faticosamente conquistato e perché nessuno dei soggetti politici ha al momento i fondi in cassa per pagare una nuova dispendiosissima campagna elettorale.
Tornare alle urne, inoltre, conviene elettoralmente forse solo al M5s e alla Lega, che potrebbero scommettere su una ulteriore radicalizzazione del voto a loro vantaggio. Una scommessa a scapito di tutti gli altri, dai quali sarebbe ovvio attendersi una strenua resistenza.

Il condizionale è d’obbligo, almeno nel caso del Pd, mentre Berlusconi sicuramente farà tutto il possibile per evitare il ritorno al voto. Come in una partita a dama, il Pd comunque si muove alla fine rischia d’essere mangiato. Se si torna al voto ha la quasi certezza di prendere una batosta peggiore di quella del 4 marzo, anche se “derenzizzato”. Se invece appoggia un governo M5s, si consegna mani e piedi a chi gli ha rubato i consensi finendo ancora una volta massacrato. Né avrebbe esito migliore un improbabile appoggio ad un governo di centrodestra, ipotesi che non a caso caldeggia Berlusconi ma non Salvini, che punta semmai a un accordo tra vincitori.

Se c’è uno stallo, è perché ad essere bloccato è anche il Pd, il perdente. Renzi con la linea dell’opposizione a qualunque governo di coalizione scommette sul fallimento dei due vincitori. Ma questa scommessa ha un senso solo se M5s e centrodestra falliscono stando al governo, non se falliscono nel mettere in piedi un governo. Il Pd può rientrare in gioco per un governo di scopo, un governo di tutti per tornare alle elezioni, ma a parte i “no” che arrivano dai due vincitori, con quale esito migliore nelle urne per i dem?

Anche la prossima elezione dei presidenti di Senato e Camera rischia di non portare ad un vero chiarimento: si va verso una manichea spartizione tra Lega e M5s ma senza che da questo scaturisca automaticamente un accordo sul nuovo esecutivo. Il M5s non vuole cedere di un palmo e il centrodestra è spaccato al suo interno. Salvini sta tentando la strada del dialogo: ha chiamato Di Maio per trattare sulle presidenze e uno dei suoi, Borghi, ha aperto al reddito di cittadinanza in salsa leghista. Ma Berlusconi fa muro, boccia tutto e sbatte la porta in faccia ai pentastellati.

Buon senso vuole che l’Italia riesca infine ad avere un governo, ma riuscirci passa da eventi al momento imprevedibili e incerti: o da improbabili cambi di casacca di massa a favore di uno dei due vincitori, o dalla scomposizione degli attuali partiti e coalizioni o dalla capacità dei protagonisti di fare un passo indietro personale e sui programmi, con quello schema (punti programmatici condivisi e voto della base dei partiti coinvolti) che ha portato in Germania al nuovo governo Merkel. Ma al momento (al momento va sempre premesso) di esodi in massa non se ne vede traccia, nonostante la “campagna acquisti”ad opera di Berlusconi denunciata dai pentastellati. Quanto al buon senso (unito ad un pizzico di senso dello Stato) è proprio l’ingrediente che più d’ogni altro manca. Gentiloni si dice fiducioso, ma intanto prevale la tattica e l’interesse personale e di partito. La situazione è quella di un Monopoli nel quale i giocatori tornano continuamente alla casella di partenza. In attesa di Mattarella, l’unico che con la sua autorità e senso dello Stato può forse favorire una soluzione.

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Per uscire dallo stallo serve senso dello Stato e politica alta

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