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“Giovanni Falcone è morto senza sapere di avere questa schiera infinita di amici”. Giuseppe Ayala, già sostituto procuratore della Repubblica, poi magistrato del pool antimafia, pubblico ministero del Maxiprocesso nell’aula bunker di Palermo, e infine parlamentare della Repubblica nelle fila del Pri e dei Ds, condivide con Formiche.net i ricordi che più lo legano al suo amico Giovanni Falcone, della cui morte oggi ricorrono i ventisei anni. “Amico”, una parola che hanno usato in tanti dal 1992 in poi, millantando un rapporto personale con il magistrato siciliano. Ma gli amici di Falcone, specie nel momento del bisogno, si contavano sulle dita di una mano. Ayala era fra questi: insieme ripercorriamo gli anni trascorsi in trincea assieme a Giovanni Falcone, assassinato a Capaci dalla mafia il 23 maggio 1992 assieme a Francesca Morvillo, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Oggi la mafia ha solo cambiato volto, ma non ha perso nulla della sua ferocia. Combattere la corruzione è la prima arma per mettere ko la criminalità organizzata: il metodo Falcone, follow the money, è ancora il più efficace.

Giuseppe Ayala, qual è il ricordo di Giovanni Falcone che conserva con maggior cura?

Ce ne sono davvero tanti. Uno però mi è particolarmente caro. Quando nel 1992 il segretario del Partito repubblicano italiano Giorgio La Malfa mi offrì la candidatura per divenire parlamentare io ero molto indeciso. Allora andai a consultarmi con Giovanni. Mi disse di fissare un appuntamento e che sarebbe venuto con me. Alla fine dell’incontro io ero ancora incerto, allora lui mi disse: “Giuseppe lo sai quali sono le scommesse che si perdono sicuramente? Sono le scommesse che non si accettano”. Tornai indietro da La Malfa e accettai la candidatura.

Falcone è stato spesso definito un uomo solo.

E lo è sempre stato. Giovanni è morto senza sapere di avere questa schiera infinita di amici. Solo dal 1992 in poi tutti si sono ricordati di averlo incontrato, di averci parlato insieme. Ma la verità è che alla procura di Palermo Giovanni Falcone aveva un solo amico: Giuseppe Ayala. E ne sono ancora oggi molto orgoglioso.

L’ostracismo era confinato al mondo della politica?

Anche nel mondo della magistratura il lavoro di Falcone poneva qualche problema. Era estremamente bravo, col tempo era diventato anche molto conosciuto. Pur essendo una persona schiva, il suo volto finiva sui giornali e sulle televisioni, e questo gli attirava molte invidie.

La mafia di oggi è la stessa che lei e Falcone combattevate insieme?

C’è una grande differenza che è sotto gli occhi di tutti: il capovolgimento della strategia. A partire dal 1979, con l’uccisione di Boris Giuliano, la mafia ritenne di essere così forte e potente da poter attaccare lo Stato militarmente. Per una quindicina di anni abbiamo avuto una lunga serie di stragi di servitori dello Stato. Dal 1993 in poi i mafiosi sono tornati alla vecchia strategia, scegliendo la clandestinità e spegnendo i riflettori. Bisogna stare molto attenti a considerarlo un segno di debolezza. Io faccio sempre un paragone medico: nessuno pensi che la mafia sia ricoverata in rianimazione, è solo in corsia per accertamenti.

Quanto è cambiata Palermo negli ultimi trent’anni?

Penso che si sia mosso qualcosa che prima era impensabile, oggi c’è una presa di coscienza del fenomeno molto più diffusa. Ricordo che quando cominciammo noi all’inizio degli anni ’80 c’era qualcuno che diceva: “Ma siamo sicuri che la mafia esiste?”. Mi conforta aver visto in questa giornata di commemorazione così tanti giovani. Aveva ragione Gesualdo Bufalino quando diceva che per combattere la mafia, oltre alle forze dell’ordine e i magistrati, serve un esercito di insegnanti.

Quando l’antimafia si fa retorica non c’è il rischio di relegare una minaccia così attuale alla memoria?

Qualche rischio si può anche correre. Non tutto è trasparente e positivo, esiste anche un’antimafia strumentale, quelli che Leonardo Sciascia chiamava “i professionisti dell’antimafia”. Ma dobbiamo prendere atto che esiste un’antimafia genuina, vera, di cui prima non c’era traccia. Per trovarla dobbiamo tornare agli anni del dopoguerra, ai tanti sindacalisti uccisi perché difendevano i braccianti agricoli dallo strapotere mafioso.

Nelle ultime settimane ha fatto molto discutere la sentenza di primo grado nel processo sulla trattativa Stato-mafia. L’impianto accusatorio la convince?

Io sono un inguaribile magistrato, non mi permetto mai di giudicare il lavoro dei miei colleghi. Le confesso però che attendo con grande curiosità le motivazioni di questa sentenza.

A Formiche.net l’ex ministro di Grazia e Giustizia Claudio Martelli ha confessato di aver percepito all’epoca un’eccessiva autonomia del Ros. Anche lei ebbe questa sensazione?

Non posso confermarlo sul piano personale. Non ho mai avuto la percezione di un atteggiamento anomalo da parte del Ros.

A breve giurerà un nuovo governo. Quali sono a suo parere i provvedimenti più urgenti per riformare la giustizia italiana?

La priorità è eliminare la vergognosa disciplina della prescrizione attualmente vigente. È la negazione della giustizia. È intollerabile che in un Paese come il nostro ci siano delle disposizioni come quelle in vigore. L’impianto legislativo per la lotta alla mafia invece non ha molto da invidiare all’estero. Se lei pensa che il termine “mafia” è stato inserito nel Codice penale italiano solo il 29 settembre del 1982 con la legge Rognoni-La Torre converrà che sono stati fatti grandissimi passi avanti.

Lega e Cinque Stelle hanno presentato un programma ambizioso per la lotta alla corruzione. Colpire questo crimine significa colpire la criminalità organizzata?

Non c’è dubbio che la corruzione sia l’altra faccia della medaglia della mafia. Quando le scelte pubbliche sono condizionate da una bustarella si spalanca la porta alla criminalità organizzata. Per questo sono assolutamente favorevole alla proposta di utilizzare gli agenti provocatori anche in materia di corruzione. La corruzione è un cancro dal punto di vista etico, ma anche economico, perché brucia miliardi di euro ogni anno. Se si riuscisse a recuperarne anche solo la metà si riuscirebbe a investire molte più risorse nei lavori pubblici.

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