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L’ottavo round di colloqui di pace di Ginevra si è concluso ieri con l’ennesimo rinvio, sullo sfondo della continua incapacità dei contendenti di parlarsi direttamente e della denuncia della “catastrofe” umanitaria di Ghouta, sobborgo orientale di Damasco dove i combattimenti sono ancora intensi e il governo di Bashar al-Assad non smette di commettere crimini di guerra, incluso l’uso di armi chimiche e di bombe a grappolo.

Ginevra 8 doveva essere un momento di svolta negli interminabili negoziati tra regime e ribelli. I sette anni di guerra civile stanno volgendo al termine, sebbene non con la conclusione sperata dalle opposizioni e da buona parte della comunità internazionale, uniti nell’auspicio della caduta di Assad. Il quale, grazie al sostegno della Russia di Vladimir Putin, dell’Iran e delle milizie sciite inquadrate da Teheran, ha ribaltato le sorti di un conflitto che fino al 2015 lo vedeva perdente. In questi due anni, il regime ha riconquistato buona parte della “Siria utile”, esclusa la porzione desertica e quel 20% di territorio sotto il controllo dei curdi siriani e dei loro alleati americani. Il gruppo di Astana – composto da Russia, Iran e Turchia – è riuscito a mettere fine ai combattimenti in numerose aree del paese, dove sono state instaurate delle zone di “de-escalation”.

Rimangono, però, punti caldi come Ghouta, dove 400 mila civili sono ostaggio dello scambio di colpi delle opposte fazioni e gli aiuti umanitari non riescono a passare. La popolazione è allo stremo, e per i feriti non c’è la possibilità di raggiungere le strutture sanitarie della capitale. Di qui l’appello fatto ieri da Jan Egeland, consigliere speciale Onu sulla Siria, che – come riferisce il New York Times – denuncia la “massiccia perdita di vite” e la sofferenza di “centinaia e centinaia di feriti”. Per Eagland “non c’è calma in questa zona di de-escalation. Nella zona di de-escalation c’è solo escalation”, dice, riferendosi a Ghouta. Dove, secondo Amnesty International, negli ultimi dieci giorni sono piovute numerose bombe a grappolo in quelli che appaiono “crimini di guerra su scala epica”. Non basta. I medici sostenuti dalla Società Medica Siriana Americana sostengono di aver soccorso a Ghouta persone con sintomi di esposizione ad agenti chimici, probabilmente fosforo.

Che il regime stia ricorrendo ad ogni mezzo per avere la meglio sui suoi oppositori è chiaro da tempo. Tre settimane fa un veto della Russia al Consiglio di Sicurezza ha impedito all’Organizzazione per la Proibizione delle armi chimiche di proseguire le proprie indagini sull’attacco al gas nervino che ha colpito ad aprile il villaggio siriano di Khan Shaykoun. La responsabilità del regime, acclarata dalla stessa organizzazione, si scontra adesso con la realpolitik, che impone di sorvolare sui dettagli, ancorché atroci, e di passare al sodo, ponendo la parola fine ad un conflitto il cui esito è ormai segnato.

È per questo che il regista di Ginevra 8, l’inviato speciale dell’Onu per la Siria Staffan de Mistura, ha chiesto alle parti di non porre alcuna “precondizione”. Vale per i ribelli, che devono rinunciare alla richiesta di porre fine al potere di Assad. Ma vale anche per il presidente siriano, che non può continuare a ignorare l’esistenza dei primi. La reciproca “mancanza di fiducia” sottolineata da de Mistura è ciò che impedisce ai colloqui di fare passi avanti. Le due delegazioni continuano a riunirsi in stanze separate, costringendo l’inviato a fare avanti indietro. E la presenza del rappresentante del governo è stata in forse fino all’ultimo minuto, a causa dell’intransigenza della controparte.

Ciononostante, de Mistura ha aperto il negoziato all’insegna dell’ottimismo. Nelle sue attese, quello di ieri non sarebbe stato “un normale round di colloqui”, ma il primo passo verso la definizione delle “regole del gioco”. Il percorso tracciato dalle Nazioni Unite è segnato almeno dal 2015, anno in cui il Consiglio di Sicurezza ha approvato la risoluzione 2254. Ma se in questi due anni non è stato possibile addivenire ad alcun risultato, ora, con le posizioni sul terreno definite, si intravede la possibilità di uno sbocco. Siamo, dice de Mistura, ad “un momento-verità”, in cui è possibile “trovare una soluzione politica”. Purché cadano i veti reciproci. “Se vengono avanzate delle precondizioni”, dichiara infatti de Mistura, “io blocco immediatamente la conversazione e dico: ‘Mi dispiace, avete sentito cosa ha detto il Consiglio di Sicurezza, avete sentito cosa di fatto hanno detto i principali leader politici? Nessuna precondizione, adesso cominciamo la discussione daccapo”.

Bisogna partire dai “punti in comune”, sostiene de Mistura. Da questa “sostanza” si può giungere a definire una “visione condivisa su come la Siria potrebbe essere”. Dal cilindro dell’inviato spuntano 12 punti, la road-map del negoziato sulla Siria post-guerra civile. Che dovrebbe portare alla stesura di una nuova costituzione e alla convocazione di elezioni generali e presidenziali, così come stabilisce la risoluzione 2254.

L’incontro di ieri si conclude con una nuova convocazione, fissata per il 15 dicembre. La delegazione del governo torna in patria per “consultazioni”. L’ultima parola non si dirà però a Damasco, ma al Cremlino, nello Studio Ovale e a Teheran. Le tre cabine di regia di una crisi che continua a falciare vite. Come quelle di Ghouta, intrappolate sotto le bombe a grappolo di Bashar al-Assad.

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