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Come interpretare il “patto tra i presidenti” appena sottoscritto? Quell’accordo siglato da Giovanni Toti, per la Liguria; Luca Zaia, per il Veneto; Attilio Fontana, per la Lombardia e Massimiliano Fedriga per il Friuli Venezia Giulia, favorito nella corsa al governatorato di quest’ultima Regione. É solo una brillante trovata elettorale per favorire quest’ultimo o c’é qualcosa di più?

L’accordo é generico. Un primo passo che dovrebbe portare a un documento più impegnativo, da sottoporre agli altri rappresentanti del potere regionale. Si parla di autonomia, “per rinegoziare nuove misure con lo Stato, per acquisire maggiori competenze, per ragionare su diversi spazi finanziari”. La bandiera del federalismo, dopo il successo dei referendum regionali, voluti dallo steso Zaia e da Roberto Maroni, svetta di nuovo sul campanile più alto di quella parte del Paese che sembra aver archiviato, in solitudine, la grave crisi economica e finanziaria che soffoca i restanti territori.

Debora Serracchiani, accusata dai suoi oppositori di aver depredato la sua regione di 1,8 miliardi di euro, per consentire a Paolo Gentiloni e Piercarlo Padoan, di far quadrare i conti del disastrato bilancio nazionale, minimizza. Solo propaganda elettorale. Quel piano rischia, al contrario, di limitare l’autonomia del Friuli. E di trasformare quei territori in una dependance delle Regioni più vaste e popolose.

Minimalismo tipico di una campagna elettorale infuocata. Quell’accordo é molto di più di un aiutino dato al giovane Fedriga, candidato unico del centrodestra, per compensare la Lega della rinuncia a competere per la residenza del Senato. Al contrario, sembra essere una prima mossa, nell’eventualità del peggio. Dove il peggio é rappresentato dai possibili equilibri di governo che si intravedono a livello nazionale.

Sullo sfondo esistono due ipotesi che rischiano entrambe di penalizzare il nord produttivo. Un eventuale accordo tra i 5 Stelle e la sola Lega, avrebbe come effetto un ruolo ancillare di quest’ultima. Per quanto Matteo Salvini possa negoziare, i rapporti di forza sono quelli che sono. Il peso dei 5 stelle é pari al doppio. L’artificio del cosiddetto “programma alla tedesca” può rendere meno divaricate le opposte promesse elettorali. Ma tra le esigenze produttivistiche del nord e l’assistenzialismo, promesso a piene mani, per il Mezzogiorno, esiste un fossato che é impossibile colmare.

Ancora più preoccupante, per i governatori del nord, sarebbe l’ipotesi dell’altro forno. Che, non a caso, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, si é apprestato a caldeggiare. Dovesse prevalere un governo giallo-rosso (la Roma non c’entra) lo spiazzamento del nord risulterebbe ancora maggiore. Chi si farebbe carico dei relativi interessi? Forse qualche rappresentante del Pd, ma in posizione di maggiore debolezza rispetto all’ipotesi precedente.

Ed ecco allora che i principali esponenti dell’autonomia nordista indossano l’elemento. Non sono ancora scesi in guerra, solo perché gli eserciti nemici non hanno ancora deciso se dichiararla o meno. Ma non vi sarà una nuova Pearl Habour. All’indomani stesso dell’eventuale giuramento nelle mani del Presidente della Repubblica, da parte del governo in carica, le truppe del nord marceranno su Roma per reclamare maggiori poteri. Ed evitare quel saccheggio che il prevalere di una posizione assistenzialistica renderebbe, comunque, inevitabile.

 

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