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Comincia a farsi strada nell’opinione pubblica il convincimento che i giganti del web non siano animati dall’intento filantropico di promuovere gratuitamente la diffusione della cultura e che i loro interessi non coincidano necessariamente con quelli della collettività. Certo, non sarà un’impresa facile imporre a essi di corrispondere al fisco un’aliquota ragionevole dei loro enormi profitti; ed è del tutto illusorio, ovviamente, pensare che si possa costringerli a non mettere a frutto sotto il profilo economico la mole smisurata di dati che accumulano nel corso della loro attività. Ma almeno obbligarli ad assumersi la responsabilità dei contenuti che ospitano sulle loro piattaforme o trasportano sulle loro Reti: questo si può – e anzi si deve – fare.

Le Reti non sono – come si vorrebbe far credere – autostrade sulle quali si transita indisturbati senza alcun ordine che non sia quello determinato dall’ingresso nell’infrastruttura. C’è chi organizza il traffico, chi stabilisce l’ordine delle precedenze, chi decide, in altri termini, se si può passare fra i primi o se ci si deve invece acconciare a restare nelle posizioni di coda. Ci sono, cioè, i cosiddetti aggregatori di contenuti: le piattaforme online e i social network, i quali presentano agli utenti i risultati delle loro ricerche secondo un ordine da essi stessi stabilito. E influenzano così in maniera notevole gli orientamenti e le scelte del pubblico, praticamente senza soggiacere ad alcuna forma di responsabilità, quale quella che grava, ad esempio, sugli editori dei giornali.

Ma – si dice – le funzioni di ricerca rispondono a criteri oggettivi determinati dagli algoritmi. Gli algoritmi! Parola magica dietro cui si nascondono scelte legate a logiche di profitto. Gli algoritmi sono – com’è legittimo che sia – business oriented. È troppo chiedere, allora, che siano orientati anche alla tutela della legalità? È troppo chiedere l’introduzione di funzioni che rendano non accessibili o almeno retrocedano agli ultimi posti i siti responsabili di violazioni accertate da pubbliche autorità, giurisdizionali o amministrative? Il tema della responsabilità delle piattaforme è ormai sul tappeto da quando queste ultime hanno assunto un ruolo incomparabilmente più ampio di quello che svolgevano appena pochi anni or sono.

Oggi questi protagonisti dell’economia digitale – oltre a gestire una mole enorme di dati, di cui occorre prevenire ogni utilizzazione impropria e distorta – controllano totalmente l’accesso ai mercati online e influiscono sulla remunerazione degli operatori tradizionali ai quali fanno concorrenza. Essi concentrano in pochissime mani un potere economico senza uguali nella storia, che non può non tradursi, inevitabilmente, anche in potere politico. Riferendoci all’ambito europeo, il debolissimo regime di responsabilità delineato dalla direttiva sul commercio elettronico del 2000 è quindi poco più che un relitto storico.

Nel 2015, un’indagine conoscitiva della Camera dei deputati è pervenuta alla conclusione che le piattaforme, esenti da ogni forma di responsabilità editoriale, si muovono con profitto in una sorta di zona grigia. Finora i tentativi di illuminare questa zona grigia hanno sortito effetti meno che modesti. Una fiducia mal riposta nell’autoregolamentazione; qualche intervento frammentario riferito a fattispecie specifiche, come la tutela dei minori e l’incitamento all’odio; la vaga promessa di adottare in futuro anche misure di carattere legislativo.

Chissà, forse le recenti vicende che hanno coinvolto Facebook potrebbero provocare un’inversione di tendenza e scuotere finalmente l’inerzia delle istituzioni europee. Non di rado e malo bonum, dal male nasce il bene. La coscienza del pericolo potrebbe – si spera – fare in modo che avanzino sulla Rete le frontiere della legalità. Fare in modo che le praterie digitali cessino di apparire un far web dominato dalla legge della forza, e non dalla forza della legge.

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