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Le consultazioni che ormai, tra il capo dello Stato Sergio Mattarella e la presidente del Senato Alberti Casellati, vanno avanti da tre settimane ci hanno fornito numerosi indizi sullo stato dell’arte dopo il voto del 4 marzo. Uno dei più importanti è che, nonostante le dimissioni da segretario, a dare le carte non solo nel Pd ma nella politica italiana è ancora Matteo Renzi. Anzi, raramente si erano viste dimissioni tanto poco sostanziali. Tre, a nostro avviso, sono i motivi della permanenza al potere dell’ex sindaco di Firenze. Il primo è il controllo sui gruppi parlamentari. In fase di elaborazione delle liste elettorali l’ex premier è stato molto abile a mettere nelle posizioni strategiche le sue truppe. Così, anche se è fisiologico che qualcuno prenda le distanze e ora appaia agli occhi degli osservatori con sfumature diverse, come lo stesso reggente Maurizio Martina (prima renziano e ora considerato più neutrale), la maggior parte dei deputati e senatori del Pd sono ancora fedeli a Renzi, in una percentuale che varia dal 60 al 70%. Meno di prima, certamente, ma comunque in misura sufficiente a consentire che il senatore di Scandicci non sia, appunto, solo un senatore di Scandicci, ma colui che ancora detiene la golden share del partito e ne orienta la linea.

Il secondo motivo è la sua naturale ambizione. Renzi è un leader politico di soli 43 anni. È vero, ha perso il referendum del 4 dicembre 2016 e anche le elezioni politiche (più qualche altra cosuccia come la città di Roma), ma perché un leader così giovane dovrebbe farsi da parte e lasciare il campo ad altri? Questo poi non significa che Renzi debba continuare la sua carriera politica nel Pd: può farlo anche fondando un proprio partito, come prevedono in molti. Ma non si può impedire a Renzi di fare politica. Insomma, non tutti hanno il carattere di un Enrico Letta che, dopo esser stato disarcionato da Palazzo Chigi proprio da Renzi, si è quasi ritirato a vita privata. Renzi, nel bene e nel male, è di una pasta diversa.

Ultimo motivo è che, al momento, di leader alternativi, per contenuto politico e personalità, nel centrosinistra non se ne vedono. Non sembra avere la caratura da leader Andrea Orlando e nemmeno Dario Franceschini, nonostante quest’ultimo sia già stato segretario nel dopo-Veltroni. E neanche Martina sembra avere le phisique du role per guidare la ripartenza del principale partito della sinistra italiana. L’unico che potrebbe dare a Renzi filo da torcere è il governatore laziale Nicola Zingaretti che però, nonostante abbia manifestato la volontà di candidarsi a segretario al prossimo congresso del partito, per ora resta assai defilato in merito alle questioni nazionali. Così l’ex sindaco di Firenze ha ancora campo libero per mancanza di competitors. Se e quando ne arriveranno, allora le cose potranno cambiare. La partita, però, si deciderà al congresso, non prima.

Per tutte queste ragioni, dunque, è ancora Renzi a dare le carte, non solo al Pd, ma alla politica italiana. È lui che finora ha mantenuto il Pd sull’Aventino, dicendo no a qualsiasi ipotesi di dialogo con il Movimento 5 Stelle, nonostante gli inviti ad aprire un tavolo con i grillini siano giunti da più parti all’interno del Pd. Da esponenti della minoranza e, più sottovoce, pure da qualche renziano. Basti vedere l’apertura di credito su tre punti programmatici concessa a Di Maio dallo stesso Martina. Se ora le cose cambieranno, e si andrà a esplorare la strada di un governo M5S-Pd-Leu, succederà solo per volontà di Renzi. Sarà lui a decidere se è il caso di aprire il famoso “forno” del Pd verso i grillini per formare un governo. E quanto tenerlo aperto. In caso di un nulla di fatto, poi, sarà sempre l’ex premier a decidere l’adesione dei dem a un esecutivo del presidente, un governo istituzionale con tutti dentro per sbloccare l’impasse e consentire al Paese di avere una guida, anche se limitata nel tempo. In caso di esecutivo del presidente, infatti, un ritorno alle urne appare scontato nel giro, al massimo, di 12 mesi.

Insomma, dagli indizi che si continuano a raccogliere lungo il cammino sembra che, nonostante non guidi più formalmente il Pd, la stagione di Renzi sia tutt’altro che tramontata. Resta da vedere, nel periodo medio-lungo, se il senatore di Scandicci mirerà a tornare segretario oppure se guarderà altrove. Magari davvero costituendo quel partito centrista in stile Macron dove potranno trovare spazio i fedelissimi renziani del Pd, i forzisti che non vorranno entrare in un partito unico di centrodestra guidato da Salvini, più altri pezzi orfani dei partiti di centro, di area cattolica ma pure laica.

Per il momento bisogna accontentarsi del presente: e cioè stare a vedere se davvero Renzi avrà intenzioni serie con l’M5S per far nascere un governo oppure se, come qualche osservatore sostiene, andrà a vedere le carte dei grillini solo per far saltare il banco, sottolineare le loro difficoltà e dividere al loro interno i pentastellati. Tra qualche giorno ne sapremo certamente di più.

La riscoperta della centralità di Matteo Renzi (che dà le carte)

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