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È tempo di bilanci alla Casa Bianca. Oggi ricorre l’anniversario dall’insediamento di Donald J. Trump nello Studio Ovale, il 20 gennaio del 2017. Il suo discorso inaugurale fu il primo segno di un cambiamento epocale della politica americana: poco spazio alla retorica nazionale e unitaria che aveva sempre fatto da perno nei discorsi dei predecessori, e una sola promessa: “we will make America great again”. È stata mantenuta? Formiche.net lo ha chiesto a Massimo Cacciari, filosofo, politologo, professore emerito di filosofia dell’Università Vita-Salute del San Raffaele di Milano.
Professore, la vittoria di Trump nel novembre del 2016 è stata una cesura nella storia o resterà una parentesi?
Né l’una cosa né l’altra. Trump rappresenta una possibilità reale della politica occidentale oggi. In tutti i Paesi abbiamo conosciuto fenomeni analoghi. Si tratta di una tendenza generale: di fronte ai processi della globalizzazione, ai processi cosmopolitici economici, finanziari e culturali del mondo contemporaneo è inevitabile che ci siano reazioni di tipo trumpiano. Ritorni a un’idea di sovranità statale, a idee nazionalistiche, con tutte le conseguenze cui questo ha sempre portato: un’accentuazione forte della difesa delle identità etniche e culturali di ogni Paese. Sarà un periodo in cui ci sarà una continua altalena fra posizioni più meta-statuali, sovrastatali, internazionali, e posizioni sovraniste.
Cosa ha insegnato la sua vittoria alle élites americane, al mondo dei media, all’Europa?
 
Ha insegnato che non potevano sottovalutare un fenomeno che è di tutti i Paesi occidentali: un declassamento e impoverimento del ceto medio, un ceto che è sostanzialmente bianco. Ha evidenziato che non puoi continuare a lungo con politiche economiche che impoveriscono i ceti medi senza pagare dazio. Questo è in contraddizione con l’idea stessa di democrazia: da Aristotele sappiamo che le democrazie si reggono sui ceti medi. Se si spezza questo pilastro si ricorre agli estremi. Il ceto medio degli ultimi due secoli è quello che ha vinto le grandi rivoluzioni ed è diventato un ceto di conservazione. La democrazia, d’altronde, è essenzialmente un fenomeno conservativo.
Oggi gli Stati Uniti sono un Paese più diviso di prima?
 
L’America era divisissima prima e lo sarà anche dopo Trump: fintanto che non c’è un ceto medio universale, che è l’idea regolativa di una democrazia, si ha una situazione di conflitto e di disequilibrio. Trump è il segno che le nostre democrazie oggi possono correre il rischio di finire in un estremo o nell’altro.
Trump è riuscito in questo primo anno a rendere l’America “great again”?
 
No, gli Stati Uniti sono un impero declinante come tutto l’occidente. Il suo è uno slogan per chiarire che l’America non è grande come prima e non lo sarà mai. Se l’America fosse stata grande non avrebbe avuto bisogno di quello slogan. Trump è il segno di una volontà più o meno infondata di ritorno a una situazione che non esiste più. Ha saputo sfruttare questo meglio dei suoi avversari.
Il Tycoon ha dato un nuovo volto alle relazioni internazionali?
Non è un nuovo volto, è solo una nuova politica da parte dell’amministrazione americana, che ha fatto delle scelte, come schierarsi a favore di Israele rischiando di globalizzare il conflitto con i palestinesi. C’è un’alternanza delle posizioni americane fra il modello Obama e il modello Trump. È una moda, così come sono cambiate le posizioni nei confronti dell’Iran e delle relazioni dell’estremo oriente, con la Cina e i suoi Paesi satelliti. Trump costituisce solo uno dei due estremi in cui può incorrere la politica estera americana. In America, come in Europa, non c’è equilibrio, solo leadership che si rincorrono cercando di raggiungere gli estremi. Non esiste una leadership moderata nel senso etimologico del termine: modus, cioè che ha una misura della politica diplomatica americana e sappia orientarsi in base a questa memoria storica.
L’Europa è matura per avere una politica estera che prescinda dagli Stati Uniti?
 
Mi pare evidente che l’Europa non ha una politica estera, così come non ha neanche una politica interna. In una comunità politica dove non c’è alcuna misura, nelle politiche fiscali come in quelle sociali, di certo non può esistere una comune politica estera, che è sempre stata la quintessenza della politica nella storia mondiale. Al momento l’Europa ancora non esiste.
Tra le riforme che sono state osteggiate, Trump ha faticato a far passare quelle sull’immigrazione. La riforma del Daca, in particolare, ha portato a un collasso del budget del governo. Trump è portavoce di un elettorato razzista?
La componente razzista nella storia americana è fortissima e c’è sempre stata. Oggi non ha più la forza che poteva avere due o tre generazioni fa, ma esiste, e Trump senza dubbio ha colto i voti di quel settore di opinione pubblica. Ma non è questo che ne ha determinato la vittoria. La sua elezione è dovuta a un ceto impoverito, a una classe operaia ormai privata di quel ruolo sociale e politico che aveva avuto fino a qualche decennio fa che non si è sentita rappresentata dalle forze politiche tradizionali e ha voluto assaggiare questa nuova minestra.
È un fenomeno solo statunitense?
Dal mio punto di vista corriamo lo stesso rischio in Europa e in Italia. Dal momento in cui queste categorie non si sentono minimamente rappresentate sono propense a tentare qualcosa di nuovo. Da vent’anni sta succedendo e nessuno se ne è accorto. Negli anni ’90 è successo con la Lega nel Nord Italia, oggi a livello nazionale con il Movimento Cinque Stelle. A prescindere dai contenuti, queste forze politiche dimostrano questo: settori fondamentali di una democrazia come il ceto medio, la classe operaia e i lavoratori indipendenti non hanno più niente da perdere e scelgono di cambiare.
Tra le tante riforme osteggiate, Trump è riuscito a capitalizzarne una: la riforma fiscale, da cui ha preso ispirazione in Italia il centro-destra, che farà della flat tax un cavallo di battaglia in campagna elettorale.
Fra le due soluzioni c’è una differenza fondamentale. La ricetta di Trump può anche funzionare: abbassa le tasse, ma riduce al contempo i servizi, puntando ad eliminare la riforma sanitaria di Obama. Berlusconi vuole fare una riforma sanitaria alla Trump? (Ride, ndr) Credo che non prenderebbe molti voti. Secondo poi, gli Stati Uniti, come altri Paesi, possono abbassare le tasse per un semplice motivo: perché possono stampare moneta. Gli americani possono ridurre il fisco senza pagare dazio, almeno per un certo periodo, grazie alla sovranità monetaria, noi dobbiamo restare sotto il 2% del deficit. Quel che sta avvenendo oggi in campagna elettorale italiana è una dimostrazione da scuola dell’irresponsabilità della politica, che per vincere crede di poter dire qualsiasi cosa. È pericolosissimo quando la politica diviene totalmente irresponsabile, cioè animata unicamente dall’obiettivo di ottenere il potere.
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