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Sono ancora lontani i giorni in cui la Siria potrà tornare ad esistere come Stato sovrano. Il conflitto non è finito, lo stato islamico sopravvive ad Ovest e nubi di guerra si addensano sulle province di Idlib e Deir Ezzor, ad Est. Il regime di Assad, ancora debole, la miriade di gruppi ribelli finanziati ora dagli Stati Uniti, ora dalla Turchia, la costellazione di gruppi jihadisti che controllano ampie aree del Paese, si sommano alle truppe straniere in una partita a scacchi che è lungi dal trovare una soluzione. Le stesse trattative di pace intavolate negli ultimi mesi sono poco più che un’affermazione dell’influenza statunitense e russa: gli incontri di dicembre a Ginevra si sono arenati per l’incapacità dei ribelli e del governo di Damasco di trovare un compromesso, e c’è il rischio che lo stesso destino attenda la conferenza di Sochi di fine gennaio, di cui il Cremlino sarà deus ex machina.

In questi giorni gli occhi della comunità internazionale sono puntati sul nord-est del Paese. La tensione fra Stati Uniti da una parte, Turchia, Iran, Damasco e Mosca dall’altra è alle stelle, dopo che il Pentagono ha deciso di mettere in piedi una forza curda di ben 30mila uomini al confine con la Turchia e l’Iraq. A guidarla saranno i curdi delle Unità di protezione del popolo (Ypg), il braccio armato delle Forze democratiche siriane (Sdf). Ufficiali statunitensi hanno garantito che Washington supporterà questa formazione per “almeno due anni”, riporta il New York Times, ma hanno anche voluto rassicurare che l’unico scopo delle truppe curde sarà sorvegliare la fascia di confine per evitare la rinascita dello stato islamico. “Un dovere morale” chiosa il portavoce delle Sdf, Mostafa Bali.

Non è dello stesso parere il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che lunedì ha definito la mossa del’amministrazione Trump “una coltellata nella schiena”. Dalla Turchia, alleato Nato degli States con cui pure da mesi Washington è ai ferri corti, tanto da aver sospeso i visti, è arrivata la reazione più violenta. Il governo di Ankara infatti non fa alcuna distinzione fra i curdi siriani del Ypg e il Partito dei lavoratori curdi turco (Pkk), formazione terroristica combattuta da decenni dallo Stato. A nulla sono servite le spiegazioni delle Sdf e degli americani: per Erdogan Trump sta mettendo in piedi “un esercito del terrore”. “La nostra missione è strangolarlo prima ancora che sia nato” ha annunciato il presidente turco in una conferenza ad Ankara questo martedì, chiedendosi: “A quale altro scopo può essere formato questo esercito del terrore se non contro la Turchia?”. Il timore del leader ottomano è che si formi un nuovo Kurdistan al di là del confine turco. Per questo da mesi progetta un’incursione oltre-frontiera con lo scopo di sottrarre ai curdi del Ypg un’area di 60 miglia che si estende da Afrin, città di 500mila abitanti a nord-ovest di Aleppo, in mano ai curdi per gran parte della guerra civile, fino alla città di Manbij. In questi giorni Erdogan potrebbe passare all’azione, scatenando l’ira statunitense, per quanto Afrin non rientri nell’area della coalizione guidata da Washington.

Lunedì Erdogan ha rivelato che l’esercito turco è stato schierato al confine, da dove sono già partiti alcuni colpi di artiglieria verso Afrin. Alla stampa, riporta il Guardian, ha chiarito di non aver sentito preliminarmente Trump. “Non ho intenzione di chiamarlo” ha tagliato corto, per poi lanciare un avvertimento alla Casa Bianca: “In poco tempo distruggeremo tutti i nidi del terrore partendo dalle regioni di Afrin e Manbij. Chi ci ha accoltellato alle spalle e finge di essere nostro alleato non potrà impedircelo”. Non si è fatto attendere l’endorsement di Bashar al Assad ad Erdogan: guai a coloro che sposeranno la causa delle milizie finanziate dagli americani, hanno ammonito dal governo di Damasco, perché saranno considerati “traditori del proprio popolo e della nazione, e il governo li tratterà su questa base”.

 

Così la Siria fa litigare Trump ed Erdogan

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