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Giovedì 26 ottobre l’emittente televisiva russa Dozhd TV (molto schierata con l’opposizione putiniana) ha mandato in onda un’intervista a un uomo che si chiama Alan Baskayev, che si è mostrato a volto scoperto davanti alle telecamere per raccontare come funziona il mondo delle troll factory russe. Si tratta di centri nevralgici delle attività di interferenza via web organizzate da Mosca per creare caos e veicolare la diffusione di messaggi favorevoli alla linea politica internazionale del Cremlino. È un macro-piano che riprende le misure attive sovietiche sfruttando il cyber warfare per queste operazioni di spionaggio e guerra informativa.

LE INTERFERENZE, QUELLE

Baskayev racconta di come lui e i suoi colleghi che lavoravano per la Internet Research Agency di San Pietroburgo hanno contribuire alla fase iniziale del piano russo di interferire nelle elezioni americane. L’agenzia di cui faceva parte è accusata dalle intelligence americane di essere uno dei poli di queste attività, che si sono composte di: azioni hacker per sottrarre materiale dai server del Partito Democratico e della sua candidata, creazione e diffusione endemica di storie fasulle per infangarne la credibilità (già non ferrea), operazioni per cercare di alterare il voto informatico americano (non riuscite a differenze delle prime due iniziative). Il team di Alan creava storie per fomentare le divisioni razziali tra i cittadini americani, per esempio.

CHE COSA FACEVANO?

L’uomo racconta che ha iniziato il suo lavoro (dal novembre del 2014 e l’aprile del 2015) per soldi: la paga era alta (non stellare, ma sopra la media), e in un momento in cui serviva di sbarcare il lunario troppi crucci etici non gli sono venuti in mente. Parla tanto, fa vari nomi tra cui quello di Yevgeny Prigozhin, businessman russo (settore ristorativo) conosciuto come “Lo chef di Putin”: Baskayev dice che era “il nostro uomo, è lui che ci dava i soldi”. Il suo compito: fomentare certe discussioni all’interno di forum americani. La forza dei troll allineati secondo un certo obiettivo è proprio questa: monopolizzare i discorso, veicolarlo. “Ci divertivamo” dice, “era un baccanale”: “Abbiamo fatto cose folli, ridicole, creative. Arte”, e ancora, “era Postmodernismo, Dadaismo”. L’obiettivo era spingere le divisioni, calcare posizioni estreme, e farlo in modo quanto più diffuso possibile. Dalla Thailandia, dove adesso insegna russo dopo aver lasciato San Pietroburgo, racconta: “Prima dovevi essere un redneck (un villano, ndr) del Kentucky; poi dovevi essere un ragazzo bianco del Minnesota che ha lavorato tutta la sua vita, ha pagato le tasse e ora vive in povertà; e 15 minuti dopo dovevi scrivere qualcosa nello slang degli [afroamericani] di New York”. Racconta che a un certo punto volevano ingaggiare una donna che somigliasse a Hillary Clinton per girare un sextape con un uomo di coloro: non lo abbiamo fatto alla fine, spiega, perché l’accento della tipa che avevamo trovato era troppo diverso da quello della leader democratica, ma “vi assicuro che lei era uguale di aspetto”.

UN ALTRO PEZZO DEL PUZZLE

L’apparizione televisiva è passata quasi inosservata, ma è un pezzo del puzzle che il Russiagate sta cercando di ricostruire. A oscurarla ci hanno pensato i primi tre arresti ordinati dallo special consuel che sta portando avanti il filone giudiziario (e più corposo) dell’inchiesta. Sempre sul tema in questi giorni c’è un’altra notizia: i dirigenti del settore sicurezza di Facebook, Google e Twitter hanno praticamente ammesso davanti al Congresso americano (che invece si occupa delle questioni più politiche dell’indagine) di aver sottovalutato il fenomeno del trolling e in generale il piano d’interferenza russo. Da settimane è noto che alcune pubblicità sui social network erano state comprate e gestite dalle troll factory del Cremlino sempre nell’ambito dell’interferenza alle presidenziali. Ora c’è anche un numero: 126 milioni di persone hanno avuto modo di visualizzare nel proprio News Feed quei contenuti studiati ad hoc dagli esperti dell’intelligence russa per fomentare divisioni e caos attorno al voto americano; a inizio ottobre Facebook aveva detto che al massimo 10 milioni di utenti erano entrati nel giro degli annunci pubblicitari alterati. Almeno 2700 account Twitter fasulli venivano utilizzati da troll russi per diffondere, condividere, e far rimbalzare online quegli stessi contenuti, molti dei quali messi online dall’agenzia di San Pietroburgo per cui lavorava Baskayev.

Ecco come funzionano le troll factory russe. Il racconto di un ex dipendente

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