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Altre sanzioni potrebbero “creare più pressione sul regime” iraniano, ha detto al Wall Street Journal l’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman (anche MbS). “Dobbiamo raggiungere questo obiettivo per evitare un conflitto militare, se non riusciremo a farlo, probabilmente avremo una guerra con l’Iran tra 10-15 anni”. Il messaggio è diretto in via generale alla Comunità internazionale, ma è evidente che cerca negli alleati europei supporto (ci si arriverà).

Il principe factotum del regno sta cercando accrediti internazionali sulla sua postura anti-Teheran. MbS ha viaggiato nelle ultime settimane al Cairo e a Londra, cercando di accaparrarsi il sostegno degli alleati – internazionali e regionali – nel confronto che il nuovo corso saudita ha lanciato contro l’Iran. Ma soprattutto è stato protagonista di una visita di tre settimane negli Stati Uniti, dove ha incontrato il presidente Donald Trump e i componenti più influenti dell’amministrazione, compreso Jared Kushner, il genero del Prez link d’entratura per l’erede al trono nell’America presidenziale, e con loro uno stuolo di businessman e influencer, da Rupert Murdoch a Oprah Winfrey e Tim Cook.

E il momento è importante: tra poco scadrà il termine entro il quale Washington dovrebbe decidere se ritirarsi (e come farlo) dal deal atomico che ha riqualificato Teheran – l’accordo del 2015 ha riaperto i canali economici e commerciali iraniani precedentemente sanzionati, in cambio del congelamento del programma nucleare.

L’amministrazione Trump è una delle più severe di sempre con la Repubblica islamica (certamente molto più delle precedente, che ha lasciato come legacy internazionale proprio il nuke deal) e potrebbe prendere una posizione ancora più aggressiva. Il presidente Donald Trump ha da poco nominato a capo del consiglio di Sicurezza nazionale, organo consultivo ma con una fondamentale importanza sull’indirizzare certe posizioni, John Bolton, un falco repubblicano fortemente critico con l’Iran – Stratfor, in un’analisi, scrive che Trump sta caricando il proiettile Bolton (uno che sostiene che gli americani dovrebbero sostenere una rivolta popolare in Iran, una volta che gli Stati Uniti si sono tirati fuori dall’accordo nucleare). E sempre su questa traiettoria potrebbe spostarsi il dipartimento di Stato, dove il nuovo segretario Mike Pompeo è un altro severo critico degli ayatollah.

Se gli Stati Uniti sono l’aggrappo internazionale principale – alleati che si sono riavvicinati ultimamente ai sauditi dopo che l’accordo obaminano con l’Iran li aveva ovviamente allontanati – per i sauditi le denunce pubbliche, i colpi mediatici, sono altrettanto fondamentali per muovere altri consensi. La linea di Washington infatti non è stata sposata con convinzione dai partner europei – cofirmatari del deal atomico.

Bruxelles ha più volte criticato gli americani perché le posizioni prese contro l’accordo rischierebbero di creare ulteriori disequilibri in Medio Oriente e rimaneggiare un tassello di esile stabilità più o meno acquisito. Però la diplomazia statunitense è riuscita a far convogliare il pensiero europeo su un punto comune: con Teheran non si può evitare di essere severi.

Per due ragioni: primo, stanno portando avanti un programma sui missili balistici al di fuori non dell’accordo nucleare del 2015 (che non parla di missili), ma di una risoluzione delle Nazioni Unite precedente. Secondo: l’Iran sta manovrando interessi clandestini in diversi paesi mediorientali – dall’Iraq al ruolo in Siria a quello più sfumato nella guerra in Yemen – con le quali cerca di guadagnarsi sempre più influenza a livello regionale.

È una politica scorretta, fatta di sostegno a gruppi politici armati come gli Hezbollah libanesi (che per Stati Uniti e Ue è un’organizzazione terroristica) o quelli iracheni (che durante la guerra d’Iraq hanno attaccato le forze armate occidentali e stanno continuando a minacciare i militari americani, francesi, italiani che hanno aiutato Baghdad a liberarsi dall’IS), o ancora l’appoggio dato al sanguinoso regime di Bashar el Assad in Siria.

MbS l’ha chiamata sul WSJ “la strisciante influenza iraniana”: l’espansione dell’Iran attraverso conflitti per delega. Su questo anche gli europei potrebbero essere d’accordo nel pressare Teheran. Per questo il messaggio che arriva a margine del lungo tour americano parte da Washington per arrivare a Bruxelles.

Tra il 25 e il 26 marzo fa la televisione di stato saudita ha battuto la notizia secondo cui diversi missili soni stati lanciati dai ribelli Houthi dallo Yemen verso il territorio saudita: tutti intercettati. Il 30 un Patriot americano della difesa aerea saudita ha fatto cilecca ed è caduto sopra la città di Najaran uccidendo un egiziano – i ribelli yemeniti hanno invece detto di aver colpito una caserma della Guardia nazionale saudita. Non è la prima volta che i nordisti cercano di colpire l’Arabia Saudita, ma stavolta la fitta serie di lanci che ha accompagnato l’anniversario del conflitto yemenita è stata condannata anche dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

I sauditi, dal 2015 si sono lanciati in un’operazione militare contro le forze separatiste che hanno aperto il fronte della guerra civile in Yemen. È una missione militare fortemente voluta da MbS per difendere il governo amico, ma anche per contrastare in modo semi-diretto l’influenza iraniana in quel paese che Riad considera il cortile di casa; Houthi e Iran hanno legami di grado ideologico e politico, e collegamenti militari (sempre negati dagli iraniani, ma gli indizi dicono che sono una di quelle attività ibride con cui Teheran cerca di diffondere la propria influenza, destabilizzando uno status quo che detesta).

Portare l’attenzione sulla crisi in Yemen serve a MbS per accaparrarsi consensi, e farlo evidenziando i lanci di missili contro aree civili ancora di più. C’è una doppia necessità: per primo rimarcare quanto sia pessima l’influenza iraniana nella regione (giustificando la linea dura di Riad e chiedendo su questa la convergenza di alleati sul proprio punto); secondo, vogliono giustificare il proprio impegno militare, che s’è portato dietro migliaia di vittime civili (e questa giustificazione può essere utile anche per i paesi europei che hanno sostenuto i sauditi, fornendo armi e informazioni, e che sono spesso criticati perché stanno appoggiando un’operazione piena di danni collaterali). “Se noi non fossimo entrati in guerra nel 2015”, ha detto il principe saudita al WSJ, “ci troveremmo uno Yemen diviso, al nord i ribelli Houthi al sud al Qaeda”.

MbS ha anche sottolineato il proprio impegno sul fronte anti-terrorismo e anti-radicalismo, argomenti delicati quando si parla di Arabia Saudita, spesso controversi. “La Fratellanza musulmana è un incubatore di terrorismo”, dice al giornale di Wall Street amico di Trump. La scelta probabilmente non è casuale, ma frutto di un allineamento che serve a smuovere gli animi europei.

La dichiarazione serve a tenere il punto anche sulla vittoria di Abdel Fattah al Sisi in Egitto, dove il generale-presidente ha aperto un fronte guerresco contro l’Ikwhan; e allo stesso tempo sostiene la linea emiratina (Riad e Abu Dhabi sono allineati nel confronto durissimo all’Iran e nel chiedere sostegno a Washington). Contemporaneamente dà garanzie a chi chiede a Riad maggiore schiettezza nei riguardi delle visioni più radicali dell’Islam (una di queste, quella wahhabita, è la religione di stato saudita).

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