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Vincenzo Scotti è irritato. Intervistato da Formiche.net a margine dell’incontro Menabò presso la sede della Civiltà Cattolica, il presidente della Link Campus, democristiano della prima ora e più volte ministro, confida di non sopportare le astruserie di opinionisti e politici che si ostinano a “ingabbiare la realtà dentro categorie astratte” e all’indomani delle elezioni parlano ancora di moderati, populisti, riformisti e via dicendo. Alea iacta, ora lo sguardo deve essere rivolto al Quirinale, dove presto tutte le forze politiche, nessuna esclusa, saranno chiamate a dare un governo al Paese. A cominciare dal partito di Luigi Di Maio, che è democristiano nell’aspetto, ma non nella sostanza.

Presidente Scotti, perché è tanto irritato da certe analisi post-voto?

Perché non riescono a cogliere la realtà sociale e politica del Paese. I cittadini non hanno votato sulla base di un dibattito ideologico e programmatico, ma di un metodo di governo di questi ultimi anni. Il centrosinistra può anche aver fatto cose buone, ma l’arroganza del potere è emersa chiaramente agli occhi dei cittadini. Al centro della discussione pubblica non ci dovrebbero essere tanto i programmi astratti, quanto i rapporti del governo che verrà con la società civile.

L’incertezza politica che regna all’alba delle consultazioni è dovuta a questa legge elettorale?

Il dibattito sul sistema elettorale è un annoso problema che risale alla fine della Prima Repubblica e da quel momento purtroppo è diventato il tema dominante. Si crede che facendo di continuo nuove leggi elettorali si possano risolvere problemi prettamente politici. Un’idea ridicola: chi non è capace di creare una maggioranza come può credere di superare l’ostacolo con un meccanismo elettorale? Non è così che si può formare una stabile coalizione di governo.

Il Pd in questi anni ha avuto una corposa maggioranza, nata da una legge elettorale dichiarata in seguito incostituzionale dalla Corte.

Questo dà una visione sbagliata a chi governa, perché crede di essere maggioranza del Paese anche se in realtà non lo è. Quella maggioranza parlamentare era fittizia rispetto al sentire del Paese, per questo Matteo Renzi ha sbattuto la testa contro il muro con il referendum costituzionale del dicembre 2016. Se ci fosse stato un serio tentativo di coinvolgere il resto delle forze parlamentari adesso il quadro politico sarebbe diverso. Invece quando Renzi si è presentato da premier incaricato al Senato ha detto: “questa è l’ultima volta che voterete la fiducia”. E così è giunta la famosa “vendetta di Montezuma”: quello che doveva cancellare il Senato è diventato senatore.

Lei è stato in qualche modo protagonista di questa campagna elettorale. La sua Link Campus ha infatti ospitato diversi esponenti di spicco delle forze politiche, e soprattutto dai suoi banchi provengono tre delle professoresse “candidate ministre” di Di Maio: Elisabetta Trenta alla Difesa, Emanuela Del Re agli Esteri e Paola Giannetakis agli Interni. Ci può dare un giudizio professionale sulle sue colleghe?

Io da presidente dell’università non dò alcun giudizio, posso giudicare la loro capacità sulla base di quel che mi dicono gli studenti. Si può al tempo stesso essere un ottimo insegnante e un pessimo governante e viceversa. Questa credenza per cui un docente necessariamente sa governare bene è crollata da tempo, lo abbiamo sperimentato con i governi tecnici.

L’ultima volta le chiedemmo se Di Maio è un democristiano. Lei ci rispose di no, eppure il leader pentastellato ha affermato di rifarsi ad Alcide De Gasperi e alla dottrina sociale della Chiesa..

Di Maio può citare chi vuole, ma la Dc e i Cinque Stelle sono due fenomeni completamente diversi, perché rispondono a sfide ed esigenze diverse.

Ci spieghi meglio.

La Dc di De Gasperi nacque all’indomani della Seconda Guerra Mondiale da un’unità di credenti che si proponevano di governare il Paese. Era un partito di ispirazione cristiana, non il partito dei cattolici. Una forza politica che teneva insieme la cultura sociale cattolica e la componente liberale del Paese. Anche dopo la vittoria del 1948, pur avendo una maggioranza del parlamento, De Gasperi rifiutò di governare senza la cultura liberale scontrandosi con Giuseppe Dossetti.

Un utile monito in vista delle consultazioni. Insomma Di Maio non ha le carte per divenire un democristiano doc?

Ripeto, Di Maio è libero di rifarsi a una cultura cattolica. Spero però che non commetta lo stesso errore di molti miei amici democristiani.

Cioè?

Pensare che lo scudo crociato sia di per sé un valore elettorale che garantisce un bacino sicuro. Una stupidaggine assoluta: il mondo è cambiato, le nuove generazioni non sanno cosa sia il partito democristiano degasperiano né quello moroteo. Con tutto il rispetto, non vedo perché oggi i giovani dovrebbero riconoscersi in quel simbolo.

Da una parte Di Maio apre al dialogo con gli altri partiti, dall’altra il suo elettorato chiede di chiudere la porta agli avversari rispettando le promesse della campagna elettorale. Come conciliare queste due istanze?

Il problema sta tutto qui: Di Maio sta trasformando il Movimento in una forza di governo all’interno delle istituzioni. Se andasse in porto sarebbe un’operazione straordinaria. Proporre liberamente idee all’interno di un movimento è un conto, realizzarle è molto più complesso, perché bisogna fare i conti con condizionamenti economici e internazionali. Ammiro il suo tentativo, bisogna vedere se riuscirà a portarlo a termine. Da italiano ho a cuore l’interesse generale del Paese, e sicuramente è positivo e nell’interesse del Paese che una forza che ha il 32% in Parlamento divenga forza di governo.

Talvolta però gli appelli di Di Maio a Mattarella sono suonati come pretese di chi pensa di avere già la maggioranza degli elettori.

Lui sta cavalcando la tigre e riceve due sollecitazioni diverse: quella del Movimento e quella della nascente forza di governo. A volte il linguaggio di Di Maio scade troppo nella prima parte, altre volte nella seconda. Se dà retta al suo elettorato viene giudicato debole da chi vuole andare al governo e viceversa.

Se dovesse dare un consiglio a Di Maio in vista delle consultazioni cosa gli direbbe?

I vecchi devono astenersi da dare consigli. Spero però che Di Maio tenga a mente l’interesse del Paese, e che lo stesso venga fatto dai leader delle altre forze politiche. Tutti sono candidati ad essere forza di governo, anche chi ha perso.

Anche il Pd?

Anche il Pd con il suo 19%, non dimentichiamolo, ha le carte in regola per entrare in un esecutivo, purché prenda l’iniziativa per essere coinvolto dagli altri partiti. Si può fare politica di governo nel parlamento come nel Paese, ma il Pd non deve commettere l’errore di aspettare di essere chiamato. Sarebbe un irresponsabile chi, avendo avuto fino ad oggi la responsabilità di governo, decidesse di sedersi nell’attesa che gli altri sbattano la testa contro il muro.

Vi spiego perché (e come) Di Maio sta cavalcando una tigre. La versione di Scotti

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