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La Corte costituzionale interviene sull’Ilva, dando ancora una volta uno scossone allo stabilimento pugliese, in attesa di essere definitivamente ceduto ai franco-indiani di Arcelor Mittal. I giudici della Consulta hanno dichiarato incostituzionale il decreto del 2015 che consentiva la prosecuzione dell’attività di impresa degli stabilimenti, in quanto di interesse strategico nazionale, nonostante il sequestro disposto dall’autorità giudiziaria per reati inerenti la sicurezza dei lavoratori. Attenzione, la sentenza è stata depositata oggi ma per conoscere le motivazioni nel dettaglio bisognerà attendere il dispositivo, tra una ventina di giorni.

Prima di capire il significato e l’eventuale impatto della sentenza, c’è da fare un piccolo passaggio sull’origine della decisione della Consulta sull’Ilva. La questione nasce a seguito dell’infortunio mortale subito da un lavoratore dell’Ilva esposto, senza adeguate protezioni, ad attività pericolose nell’area di un altoforno dello stabilimento di Taranto. L’altoforno era stato sequestrato dall’autorità giudiziaria ma, pochi giorni dopo, il legislatore aveva disposto la prosecuzione dell’attività di impresa, alla sola condizione che entro trenta giorni la parte privata colpita dal sequestro approntasse un piano di intervento contenente “misure e attivita’ aggiuntive, anche di tipo provvisorio”, non meglio definite.

La Corte costituzionale ha dunque fatto applicazione degli stessi principi della sentenza 85 del 2013 in base ai quali pur in presenza di sequestri si può intervenire per consentire la prosecuzione dell’attività in stabilimenti di interesse strategico nazionale quale l’Ilva è. Ma “a condizione che vengano tenute in adeguata considerazione, e tra loro bilanciate, sia le esigenze di tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità dei lavoratori, sia le esigenze dell’iniziativa economica e della continuità occupazionale”. Insomma, a detto dei giudici costituzionali, il decreto Ilva aggirava nei fatti il problema di sicurezza nell’altoforno.

Un’idea ha provato a farsela Corrado Clini,  l’uomo che da ministro dell’Ambiente nel governo Monti (2011-2013), condusse la vecchia proprietà, la famiglia Riva, a sottoscrivere gli impegni per il risanamento ambientale poi confluiti nell’Aia e diventati legge, nel 2012. “Io proverei a fare questo tipo di deduzione. E cioè che la Corte abbia in realtà voluto sottolineare un altro aspetto, quello relativo alla differente natura degli strumenti con cui si è intervenuti sulla legge del 2012 . Con il decreto del 2015 e prima ancora con il dpcm del 2014 si è di fatto prorogato per altri anni il risanamento e le attività dello stabilimento. Ma per intervenire su una legge bisogna farlo con un’altra legge e credo che questo non sia stato fatto”.

Comunque sia, è presto per valutare l’impatto della sentenza su Taranto. “Ci sono già due tipologie di problemi. Il primo riguarda l’Antitrust Ue, ovvero la discesa di Arcelor sotto il 40% della produzione, per non infrangere le regole europee. La seconda riguarda il risanamento che ancora non si è capito chi lo stia facendo”, conclude Clini.

 

Ilva, il nuovo scossone viene dalla Corte costituzionale. L'opinione di Corrado Clini

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