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La sfida per rimpiazzare il seggio al Senato di Jeff Sessions, repubblicano dell’Alabama chiama dal presidente Donald Trump a coprire il ruolo di Procuratore Generale, è stata vinta dal democratico Doug Jones. In termini politici pratici è una sconfitta potenzialmente devastante per il Partito Repubblicano, per l’amministrazione e per Trump personalmente. Jones ha battuto Roy Moore, l’iper-controverso cowboy repubblicano (ieri è arrivato a votare al seggio a cavallo con uno Stetson in testa in pieno personaggio). La candidatura di Moore è stato il primo passo di un piano pensato da Steve Bannon – ex stratega della Casa Bianca e ideatore del trumpismo prima di Trump – che ha dichiarato guerra ai repubblicani con l’intenzione di sostituire parte della leadership con candidati estremisti e molto sulla linea-Trump, per poter dare al presidente maggiore libertà di azione al Congresso. Questo piano prevede di appoggiare i candidati anti-establishment alle primarie che si terranno in vista delle elezioni di medio-termine del novembre 2018, e intanto iniziare da lì questo “repulisti” (il termine è rubato da questa analisi di Gianluca Di Tommaso, pr esperto di politica americana, curatore della newsletter “Night Review“). Ora però la sconfitta di Moore, il primo step del programma bannoniano, è un colpo duro, anche perché nel frattempo lo stratega ha perso l’appoggio formale del suo principale finanziatore.

Moore era un candidato critico non solo per le sue idee – anzi, per quelle aveva incontrato il consenso della gente dell’Alabama, che lo aveva scelto alle primarie –, ma perché nelle ultime settimane erano uscite pessime storie su di lui: si parlava di molestie sessuali avvenute anni fa, alcune a danno di minorenni. Ma Moore sembrava l’unico cavallo da poter cavalcare per i repubblicani, che obtorto collo, tra molti imbarazzi, alla fine lo avevano sostenuto – insieme al presidente – perché comunque la gente sembrava stare ancora con lui, e soprattutto perdere il seggio dell’Alabama sarebbe stato un grosso problema non solo in termini politici più alti, ma proprio dal mero punto di vista tecnico. Al Senato i conservatori hanno una maggioranza di 52 seggi contro 48: ora che Jones ha vinto, la distanza si assottiglia in 51 a 49, e questo significa che i Rep hanno solo due voti di vantaggio per far passare le grandi leggi (riforma sanitaria, riforma fiscale, eccetera) che il presidente ha promesso in campagna elettorale. Da notare che, per colpa di una maggioranza già risicata, finora niente è stato passato dalla camera alta, dato che via via qualche repubblicano critico con Trump s’è sganciato.

Per i democratici è una vittoria importante, anche se è arrivata con pochi punti percentuali in più. Potrebbe essere una spinta per ripristinare lo spirito del partito, che attualmente vive l’enorme polarizzazione politica americana e trova un punto di contatto tra le varie aree interne soltanto nell’opposizione a Trump. Jones è stato il primo democratico a vincere uno dei due seggi al Senato disponibili in Alabama dal 1992, ma lui è stato un attore secondario in questa corsa elettorale, dove più d’ogni altra cosa hanno contato le controversie interne ai repubblicani (il partito inizialmente non aveva appoggiato il bannoniano Moore) e il grosso scoop del Washington Post che ha portato alla luce le denunce delle donne che accusano Moore di molestie.

In Alabama ha vinto il democratico Doug Jones

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