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A inizio novembre il direttore della Cia Mike Pompeo ha scritto personalmente al capo della Quds Force iraniana, Qassem Souleimani. I due rappresentano gli spearhead dell’odio tra Stati Uniti e Iran, e per questo la corrispondenza è un punto interessante: la Cia è la Cia, ma adesso è guidata dal più falco dei falchi anti-Iran all’interno di un’amministrazione statunitense che ha messo Teheran al centro dei suoi target; le Quds sono un’unità speciale dei Guardiani della rivoluzione che si occupa delle operazioni all’estero (quando si sente parlare di milizie sciite filo-iraniane, ci si riferisce a corpi paramilitari politici locali addestrati dalla Quds come parte della strategia studiata da Souleimani con cui l’Iran ha diffuso l’influenza e il rafforzamento a cui ci troviamo davanti adesso).

La lettera di Pompeo è stata recapitata a mano al generale iraniano da un operativo Cia che si trova, o trovava – come tanti altri (Peter Quinn di “Homeland” non era proprio solo fiction) – in Siria. Il policy maker più operativo di Teheran era ad Abu Kamal, una città del sud siriano vicinissima al confine iracheno che le milizie sciite iraniane stavano liberando dall’IS per conto del regime siriano. Sono state soprattutto queste operazioni militari a puntello di Damasco che hanno potenziato l’Iran, che esce vittorioso dalla guerra siriana perché ha giocato – in partnership con la Russia – sul cavallo giusto, schiacciando i ribelli sponsorizzati invece dalle realtà regionali nemiche di Teheran come l’Arabia Saudita.

La lettera, per stessa ammissione del direttore dell’intelligence americana, conteneva un’intimidazione con cui si avvertiva Souleimani di evitare ogni genere di contatto tra quelle milizie che lui controlla e le forze militari statunitensi in Iraq (Abu Kamal è sul confine siro-iracheno). Washington avvisava che da lì in poi considerato responsabile l’Iran per la condotta dei suoi proxy: molte di queste milizie sono infatti le stesse che durante l’occupazione americana in Iraq hanno compiuto decine di attacchi contro i soldati statunitensi (un nome su tutti, la Lega dei Giusti), dunque l’avvertimento non era vuoto di motivazioni. Ma il motivo era anche più contingentato, perché era stato lo stesso generale iraniano a far sapere che le milizie irachene avrebbero potuto considerare i soldati americani, che fino a pochi giorni prima avevano combattuti il terrorismo dello Stato islamico praticamente dallo stesso fronte, come forze occupanti (memo: due mesi fa in Iraq un militare americana è stato ucciso da un ordigno che, secondo i dati del Washington Post, avrebbe tutti gli indizi per essere stato confezionato da una di queste milizie, perché quel tipo sofisticato di esplosivo improvvisato è una sorta di firma).

Souleimani si è rifiutato di aprire la lettera: la storia finisce qui. Parlando dal podio della Ronald Reagan Presidential Foundation and Institute di Simi Valley, in California, il direttore americano ha detto che il rifiuto del generale “non mi ha spezzato il cuore, per essere onesto con voi”. Pompeo è anche l’uomo che nei prossimi due mesi potrebbe sostituire Rex Tillerson al dipartimento di Stato, con uno shift programmatico che indica la direzione verso cui potrebbe andare la politica estera americana prossimamente – soprattutto in Medio Oriente, dove il confronto tra Iran e paesi del Golfo è un affare di primissimo piano, e ancora una volta la Siria è il fulcro della situazione. Per vincere la guerra civile, Bashar el Assad ha accettato l’infiltrazione dell’Iran, e ora Teheran ha creato un hub nevralgico per il controllo mediorientale; gli Stati Uniti ne sono preoccupati perché la vedono anche come una minaccia per alleati locali, come Israele e Arabia Saudita (Souleimani è per esempio colui che tiene i rapporti con i gruppi palestinesi che attaccano gli israeliani).

(Foto: Wikipedia, il generale Souleimani in visita alle milizie filo-iraniane in Iraq)

La Siria è il territorio di confronto tra Iran e Stati Uniti: la lettera di Pompeo a Souleimani

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