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La colpa è di Max Weber, uno dei padri della politologia moderna. Il sociologo, infatti, in una memorabile allocuzione in quel di Vienna nel 1919, stabilì che l’impegno del vero politico dovesse essere ispirato dalla Beruf, parola che in tedesco evoca il concetto di professione a cui Weber accostò quello di passione. Il problema è stata la traduzione in italiano che ci ha restituito l’effetto di una semplificazione, quella del “politico di professione”, formula praticata in esclusiva nel dibattito pubblico nazionale, lasciando nell’oblìo ogni impulso “pasionario”.

Epperò nella cosiddetta Prima Repubblica la coperta ideologica che avvolgeva l’esperienza di ogni avventura politica, un po’ surrogava la spinta della passione. Quanto meno la implicava, la considerava acquisita con i rudimenti del sapere politico elargiti nelle scuole di formazione dei partiti e con il necessario cursus honorum richiesto per poter fare “la carriera”. Finiti i partiti, abbandonati i sistemi elettorali basati sul voto di preferenza, con la “discesa in campo” dei “conducatori”​ ​e l’affermazione dei partiti personali, l’espressione weberiana nella versione ellittica trasbordata nel linguaggio italiano si è tinta di significati sinistri.

Per una parte preponderante della pubblica opinione, infatti, il politico di professione è poco meno di un mangiapane a tradimento che prospera in modo parassitario sulle spalle della “gente”. Per cui è apparso addirittura conveniente per i nuovi attori politici proporsi alla pubblica opinione come del tutto estranei a quel mondo mondo in cui ormai vige l’inversione dell’onere della prova di non essere l’ultimo livello del peggio, affermando il concetto in base al quale incompetenza è sinonimo di innocenza e dunque di affidabilità.

Nell’ultima legislatura della Repubblica, infatti, le liste bloccate che ornavano il nobile sistema elettorale tramandato ai posteri col nome di “Porcellum”, hanno sbarcato a Montecitorio e a palazzo Madama il 62% di absolute beginners, in massima parte del tutto privi di qualsivoglia esperienza politica. Di più: ci sono stati gruppi parlamentari i cui membri in massima parte (parliamo del 51%) non riuscivano a dichiarare agli uffici delle Camere nessuna attività lavorativa prima dell’ingresso in Parlamento, risultando, ai fini della posizione fiscale nell’anno precedente all’elezione, “incapienti”, parola sinonimica di disoccupati.

Insomma: diventare deputato o senatore ha significato per un bel po’ di gente trovare finalmente la certezza di uno stipendio. Fare, insomma, un mestiere. Ecco come l’ulteriore slittamento di un concetto nobile, legato all’intuizione di un grande maestro come Weber, conduce alla fine ad un nuovo concetto, estenuato e addirittura opposto: dalla politica con la p maiuscola, che va fatta con passione e con la professionalità che ne garantisce l’efficienza e la qualità, alla politica come mestiere, per sbarcare il lunario in mancanza di altro. Il quattro marzo è già domani: sperare in meglio non è un peccato. Solo che in questo caso significa sperare nel buon cuore di chi ha fatto le liste. Bloccate.

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