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Il professor Antonio Fiori, docente dell’Università di Bologna e uno dei massimi esperti italiani sulle tematiche riguardanti il quadrante Pacifico, scrive sul report annuale dell’Ispi un’analisi che riguarda il riverbero regionale e globale della crisi coreana.

Il 2017 è stato un anno particolarmente prolifico per il dossier: Pyongyang ha compiuto il suo sesto test atomico, con una detonazione che ha impressionato gli esperti per la potenza (e per gli impliciti progressi tecnologici); abbinati ai progressi sulla Bomba, la Corea del Nord ha anche dimostrato la capacità di costruire vettori missilistici sempre più avanzati (e ha compiuto 27 lanci per testarli durante lo scorso anno); e allo stesso tempo, dall’altra parte dell’oceano, l’amministrazione americana ha elevato la minaccia in cima alla lista dei pericoli del pianeta.

La presidenza Trump ha alzato i toni nei confronti della dittatura coreana, facendo sapere in varie occasioni che “tutte le opzioni sono sul tavolo” e dunque non dando per escluso l’uso di un’azione militare con cui decapitare la satrapia. Per Washington, il rischio che Pyongyang costruisca una deterrenza atomica strutturata, in grado di colpire fino agli Stati Uniti, è insostenibile – anche perché, l’eventuale assenso, potrebbe costituire un precedente allettante per altre realtà, come l’Iran per esempio.

L’America, davanti alla minaccia atomica di Kim Jong-un, è pronta a mettere sul piatto le ripercussioni in termine di danni materiali (vittime e distruzione) e politici che una guerra col Nord potrebbe comportare? Il punto sostanziale è questo: perché, come analizza Fiori, la crisi nordcoreana, per come sta procedendo, sta diventando un grosso affare regionale con conseguenze globali.

Gli attori in gioco sono di primissimo piano: da un lato gli americani e il loro partner locali, Giappone e Corea del Sud; dall’altro la Cina, e gli interessi russi. Già il fronte che fa riferimento a Washington sembra diviso, perché Stati Uniti e Giappone sono d’accordo sul perpetrare una linea dura, sfiancante (attraverso le sanzioni), e pensano anche all’opzione militare come extrema ratio. La Corea del Sud, invece, vive il rapporto col Nord come una condizione esistenziale e, anche e soprattutto grazie alla linea calcata dal presidente Moon Jae-in fin dalle elezioni, cerca la via negoziale, il dialogo, escludendo l’escalation a livelli armati (il peso esistenziale sta anche qui: milioni di persone che vivono nella capitale Seul, si sentono addosso le bocche di fuoco dei cannoni schierati dal Nord lungo il 38esimo parallelo).

L’esempio sta nell’avvicinamento olimpico promosso da Seul, un passaggio importante sul percorso di Moon, che ha incontrato alti rappresentanti del regime nordcoreano, mentre gli stessi hanno fatto saltare all’ultimo minuto un meeting segreto – ma programmato – con il vicepresidente americano. Il Sud aveva invitato il Nord a una sorta di tregua olimpica mentre gli Stati Uniti stavano cercando di costruire i presupposti per colpire con altre e più dure sanzioni Pyongyang. E non è la prima volta che c’è stato questo genere di discrepanza tra le azioni dei partner di questo lato, nonostante anche Seul tenga il punto sul richiedere che Kim blocchi il programma atomico: per esempio, a metà settembre scorso, Moon concesse l’invio di 8 milioni di dollari di aiuti umanitari alla Corea del Nord, in una decisione che fu duramente criticata da Washington e Tokyo.

Anche i rapporti tra Seul e Tokyo non sono ottimi, l’ingranaggio delle relazioni è ancora ostaggio di questioni vecchie (come la dominazione giapponese e il post Seconda Guerra Mondiale). Il primo ministro Shinzo Abe sta lavorando per modificare l’articolo IX della Costituzione nipponica, quello che pianta il principio della non belligeranza, e che renderebbe complicato per il Giappone essere un partner americano in un eventuale attacco al Nord – però lo potrebbe essere la Corea. Anche la decisione di Tokyo di comprare una batteria di missili balistici americani (dotazione che prima mancava al suo arsenale) rientra nel quadro complessivo prodotto dalla crisi nordcoreana, che sta – in una lettura non troppo iperbolica – portando a una corsa alle armi nella regione.

Ma per il Giappone, scrive sempre sul rapporto redatto dal think tank Alex Berfofsky (ricercatore dell’Università di Pavia e Co-Head dell’Asia Center dell’ISPI), “il Giappone non si è dimostrato all’altezza del compito di esercitare una leadership regionale su temi politici e di sicurezza”, forse anche proprio perché Abe ha voluto concentrare particolarmente sulle modifiche costituzionali la sua azione di governo (indebolita dalle accuse di clientelismo), forse per la necessaria vicinanza agli imprevedibili Stati Uniti dell’era-Trump.

Il pallino del gioco sembra essere in mano alla Cina: Pechino ha una buona presa – anche se non così totale come spesso viene descritta – su Pyongyang, e su questo può far leva. Washington pressa i cinesi, Tokyo anche, Seul, pure in questo caso, si mostra dialogante; e inevitabilmente attorno al Dragone si muovono gli interessi di chi vuol cercare di risolvere il bubbone del Pacifico (russi compresi, che aspirano a inserirsi nel dossier come dealer internazionale). Il futuro della Cina come grande potenza mondiale passerà anche dalla capacità di gestire la crisi nordcoreana e di saperne sfruttare le opportunità.

corea del nord

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