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Il Fondo europeo per la Difesa, cardine del più ampio progetto comunitario di sicurezza europea, continua a preoccupare industrie e parte della politica. Dopo l’allarme lanciato ieri alla Camera dalle imprese italiane dell’aerospazio e dell’armamento (qui lo speciale di Formiche.net) arriva un altro allarme, stavolta dall’altro ramo del Parlamento. La commissione Difesa del Senato ha infatti appena redatto un documento che pur esprimendo un parere sostanzialmente favorevole, solleva dubbie  auspici.

IL FONDO DELLA DISCORDIA

Il Fondo in questione (qui l’annuncio della commissione europea, lo scorso giugno), è il cuore del progetto di Difesa comune, visto che si tratta dell’unico braccio finanziario con cui mettere in pratica le intenzioni di Bruxelles. Il meccanismo prevede, a partire dal 2019, una dotazione di 500 milioni di euro l’anno per finanziare la filiera industriale Ue mentre a partire dal 2020 al Fondo verrà destinato 1 miliardo di euro l’anno con un contributo successivo di altri 4 miliardi alimentato dagli stessi Paesi membri per un totale di 5,5 miliardi l’anno.

UN FONDO PER POCHI FORTUNATI

Il primo dubbio di Palazzo Madama riguarda la platea di beneficiari delle risorse. L’articolo 6 del regolamento che istituisce il Fondo fissa infatti una soglia minima di due Stati, per un totale di tre aziende coinvolte, al fine di erogare i fondi. Questo significa che se per esempio Francia e Germania dovessero proporre progetti più convincenti, ciò basterebbe a far prendere alle risorse la strada di Berlino e Parigi. Con l’Italia e dunque il gruppo Leonardo (ex Finmeccanica) presieduto da Gianni De Gennaro e guidato dall’ad, Alessandro Profumo, tagliato fuori. Scenario, considerato che la spesa militare dei due Paesi supera di gran lunga quella italiana, più che plausibile. Per questo il Senato chiede di aggiungere un posto in più, invitando l’Ue a far si che “il numero minimo di Stati membri partecipanti richiesto per accedere ai finanziamenti del Fondo sia innalzato a tre, intervenendo conseguentemente sull’articolo 6  della proposta di regolamento”.

PERICOLO BREXIT

Non è finita qui. Perché qualche perplessità riguarda anche quelle imprese che hanno clienti e business nel Regno Unito, alle prese con i negoziati per l’uscita dall’Ue. “Nell’ambito della definizione futura del Fondo europeo per la difesa, sarebbe opportuno porre in essere adeguati strumenti di tutela per le aziende che hanno rilevanti attività localizzate anche al di fuori dell’Unione europea, con la previsione di parziali esenzioni, in particolare con riferimento al Regno Unito”, si legge nel documento, approvato lo scorso 6 ottobre. Dal momento che l’accesso ai fondi è riservato a chi risiede e opera in Ue, il Senato chiede in sostanza garanzie per quelle aziende che pur avendo sede in Italia hanno rami di aziende o buona parte del business in Uk e che a Brexit conclusa potrebbero risultare penalizzate.

LA QUESTIONE DEL CAPITALE

Un ultimo paletto riguarda il capitale delle società dell’aerospazio che potranno accedere alle risorse. Il regolamento impone infatti all’articolo 7 che le aziende in lizza per i finanziamenti siano partecipate da soggetti europei (in molti casi lo Stato) con una quota pari o maggiore al 50%. La commissione chiede invece la revisione di tale parametro per “fornire maggiore tutela alle aziende ad azionariato diffuso ma controllate da soggetti europei (anche con quote inferiori al 50%)”, come nel caso di Leonardo, controllata al 30% dal Tesoro.

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