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La Reuters ha una notizia interessante che riguarda l’Iran: secondo diverse fonti dell’agenzia Teheran avrebbe mostrato disponibilità e apertura nell’avviare discussioni sul proprio programma missilistico. I missili balistici della Repubblica islamica sono al centro della scena perché recentemente sono stati protagonisti di una notizia alterata lanciata proprio dai media di Stato iraniani su un test probabilmente mai avvenuto, ma soprattutto perché sono uno degli argomenti a cui il presidente americano Donald Trump sta aggrappando la sua volontà (politica) di tirar fuori gli Stati Uniti dall’accordo nucleare siglato nel 2015. Il programma sui missili balistici non rientra nel Nuke Deal, ma Trump lo usa come argomento valido (vedete, dice lui, costruiscono i vettori che poi, in futuro, trasporteranno le testate) per una mossa di politica interna che mira a distruggere un’altra delle principali policy di Barack Obama e che per poco non vale il premio Nobel per la Pace al ministro degli Esteri iraniano e a Lady Pesc Federica Mogherini, gli altri due protagonisti dell’intesa.

L’INCONTRO E LE APERTURE

Secondo la Reuters l’apertura iraniana è datata 20 settembre, quando il capo della diplomazia, il quasi-Nobel Javad Zarif, ha incontrato a latere dell’Assemblea generale della Nazioni Unite le controparti che hanno siglato l’accordo (il cosiddetto 5+1, composto da Francia, Regno Unito, Russia, Cina, Stati Uniti e Germania). Presente anche il segretario di Stato americano Rex Tillerson, che ha avanzato con diligenza le preoccupazioni della Casa Bianca per il programma e si è sentito dare una replica forse inaspettata da Zarif: parliamone, possiamo discutere limiti al programma. Posizione ufficiale di Teheran al di là degli scoop giornalistici: il programma non viola una vecchia risoluzione Onu, è pensato a scopi difensivi, e dunque non è per niente negoziabile. Ma attenzione, perché la tenuta politica interna in Iran è anche collegata al mantenere posture (quanto meno apparentemente) rigide su certe questioni – ma la linea di Zarif, e del presidente Hassan Rouhani, è molto pragmatica e un ridimensionamento di gamme specifiche del programma balistico (per esempio i missili a lungo raggio) significherebbe garanzie sul proseguire della riqualificazione diplomatica iraniana iniziata con l’accordo sul nucleare, e per questo può essere discussa.

IL DILEMMA AMERICANO

La Casa Bianca si trova davanti a un punto critico, perché anche lì la tenuta è garantita da certe posture. Il 15 ottobre arriva un’altra scadenza delle certificazioni periodiche che il dipartimento di Stato fa sul JCPOA (l’acronimo tecnico dell’accordo sul nucleare) e Trump vorrebbe trovare una strada per mantenere fede a una delle sue più urlate promesse elettorali e il realismo dello scenario internazionale. Ossia, cerca il modo per tirare indietro, almeno nell’apparenza, gli Stati Uniti dal deal senza creare un terremoto che lo porti in una posizione di (ulteriore) isolamento nei confronti degli altri attori del 5+1. La certificazione è arrivata già per due volte (ad aprile e a luglio) e consiste nel sottoscrivere che l’Iran non stia facendo niente per costruire l’Atomica, e allo stesso tempo garantire che l’accordo è buono per la sicurezza nazionale americana. Per questo del dossier acido se ne sta occupando di persona il capo del Consiglio di Sicurezza HR McMaster, che sta cercando l’escamotage tecnico giuridico per bilanciare le necessità trumpiane.

LA DECERTIFICAZIONE E IL DUBBIO

L’idea è una “decertificazione”, termine a cui l’amministrazione dà il seguente significato: tirarsi indietro dall’accordo in modo formale, ma evitare che il Congresso introduca nuove sanzioni. Questo passaggio è fondamentale, perché l’impalcatura del deal si regge sul do ut des tra il congelamento atomico e il sollevamento delle sanzioni (soprattutto americane) che gravavano sull’Iran – Washington ne ha introdotta alcune di nuove, unilaterali e più morbide, che però non riguardano il programma atomico ma quello missilistico, e sarebbe questo il genere di contentini da fornire ai legislatori. Di fatto è il mantenimento dello status quo travestito da vittoria politica per Trump (una mossa “gattopardesca” è l’ottima definizione che Mattia Ferraresi ne ha dato sul Foglio). Perché il punto è: l’amministrazione Trump – divisa su tutto, anche ovviamente sul che fare con l’Iran – ha la capacità di controllare il Congresso ed evitare che una cordata bipartisan re-introduca sanzioni per il nucleare agli ayatollah? Contesto: i repubblicani non hanno dimostrato intenzione di allinearsi alla Casa Bianca su varie faccende e generalmente vedono l’Iran come un nemico da schiacciare non affidabile per accordi; inoltre ci sono diversi democratici che da sempre non amano il deal iraniano. Precedente: la volontà trumpiana di aprire alla Russia è ufficialmente naufragata quando un accordo bipartisan al Congresso ha messo spalle al muro Trump sulla necessità di firmare una legge per introdurre nuove sanzioni punitive a Mosca a seguito dell’interferenza alle presidenziali.

A tutto si aggiunge un pezzo: se l’Iran decide di trattare sul programma missilistico, come potrà Trump dimostrare i motivi della sua volontà di arretramento? Se vero lo scoop di Reuters la Casa Bianca ha in mano in questo momento un elemento reale per sbandierare la vittoria, ma accettando la sconfitta di restare nel deal.

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