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Essere il genero del presidente degli Stati Uniti e rivestire una posizione di assoluto prestigio per i rapporti con la comunità internazionale non deve essere facile, soprattutto quando ad esercitare tale incarico è un giovane businessman che da sempre si è occupato di edilizia e mai di diplomazia.

Le considerazioni di apertura di un recente approfondimento del New Yorker dedicato alla figura di Jared Kushner devono essere state in linea di massima le stesse dei tanti funzionari nell’amministrazione americana e dei numerosi diplomatici provenienti da ogni parte del mondo che nell’arco dell’ultimo anno hanno imparato a dialogare con il giovane marito di Ivanka Trump e ad apprezzare, nei limiti del possibile, una relazione da molti inizialmente giudicata male a causa dell’ombra di familismo che non ha mai definitivamente abbandonato questa amministrazione.

Tra i diplomatici che hanno messo da parte gli indugi e si sono dedicati con tutte le energie a curare l’amicizia con Kushner, sin dalla nottata dell’8 novembre 2016, c’è un nome di peso a Washington: Cui Tiankai, ambasciatore cinese presso gli Stati Uniti. Il rappresentante di Pechino era stato introdotto a Kushner in tempi non sospetti da un intermediario di assoluto prestigio, un autentico mito vivente, Henry Kissinger. L’esperto di rapporti Usa-Cina con un passato “considerevole” al fianco di più presidenti aveva contribuito – senza prendere posizioni – a un lavoro di contatti e presentazioni tra i possibili candidati al governo e i vari inquilini della Embassy Row su Massachusetts Ave. In un primo momento l’ambasciatore cinese giocò male le sue carte, dimostrando scarso interesse e facendo trapelare a Pechino l’ipotesi (da tanti accreditata) di una vittoria di Hillary Clinton alle presidenziali.

La notte dell’8 novembre 2016 tante previsioni come quella di Cui Tiankai vennero smentite e nelle ore successive alla vittoria di Donald Trump dall’ambasciata cinese partì una telefonata con annessa richiesta di incontro per riprendere la conoscenza mai approfondita fino a quel momento. Quella che per l’ambasciatore doveva essere una mossa disperata (un errore previsionale di questo tipo in Cina comporta la perdita dell’incarico) si sarebbe rivelata l’inizio di una relazione rivelatasi assai soddisfacente da Pechino, per la frequenza e la qualità del confronto con il genero di Trump.

Kushner, pur non avendo né una preparazione specifica in materia di sicurezza né le credenziali necessarie per accedere ai briefing classificati da parte dell’intelligence, avviò con l’ambasciatore cinese ed altri rappresentati diplomatici una serie di meeting proseguiti per mesi. E per mesi, contemporaneamente, il genero del presidente ha atteso che si concludessero i controlli di sicurezza per il rilascio delle indispensabili autorizzazioni. Due vicende che – pur non avendo nulla in comune all’apparenza – hanno condizionato non poco l’attività della Casa Bianca.

A differenza di altri collaboratori del presidente, che avrebbero ricevuto le autorizzazioni a pochi giorni dalla richiesta, il processo di accreditamento di Kushner è stato più lungo e travagliato, non proprio scontato. Per quanti si domandano il perché di tale ritardo da parte dell’intelligence americana la risposta starebbe proprio nei rapporti intrapresi in campagna elettorale e dopo la vittoria con i rappresentati di Paesi come Cina e Russia. Se da subito è stato chiaro il tema della pericolosità delle interferenze russe più sottile è stato l’argomento Cina, la cui pressione risulta essere nei fatti meno visibile ma ugualmente pericolosa.

Di tale pericolosità Kushner avrà avuto percezione solo a seguito di molteplici incontri a porte chiuse – e senza testimoni – con l’ambasciatore cinese. Una circostanza quest’ultima da evitare a tutti i costi per chi riveste incarichi di governo e, per di più, non ha alcuna esperienza in materia di intelligence e sicurezza.

L’ambasciatore cinese, da parte sua, ha apprezzato particolarmente la disponibilità e la relazione speciale con il genero del presidente al punto di lasciarsi alle spalle il pericolo di dover rinunciare al proprio incarico e mandare a Pechino un messaggio di grande confidenza nel dialogo con l’amministrazione Trump.

Sulla base di tutto ciò, a Washington c’è chi ha utilizzato un nomignolo per Kushner – “Mr. China” –  e crede che in parte l’inesperienza e in parte l’interesse personale nel legittimare la propria posizione abbiano giovato ad alcuni rappresentanti stranieri (tra cui l’ambasciatore cinese) divenuti rapidamente assai vicini al genero del presidente.

Questa situazione provoca non pochi malumori e preoccupazioni ai vertici dell’amministrazione, soprattutto poiché alcune questioni di estrema sensibilità per la sicurezza nazionale non passerebbero più per i canali convenzionali. In un momento storico in cui si combatte una battaglia silenziosa ma senza precedenti fra le intelligence dei due Paesi, la vicenda porta con sé veleni e un costante clima di tensione.

Kushner ha dovuto attendere diverse settimane prima di ricevere le autorizzazioni di sicurezza e poter accedere alle informazioni classificate, tra cui il famosissimo P.D.B. (President’s Daily Brief) che ogni giorno è inviato al suo indirizzo email insieme a quello di almeno altre cinque persone – fatto che non trova precedenti e mette in serio disagio alcuni tra gli ufficiali che redigono il briefing a cui solo il presidente e pochissimi altri dovrebbero avere accesso. Secondo il New Yorker tra i motivi del ritardo nell’autorizzare il genero di Trump vi sarebbero stati proprio gli incontri avuti prima della campagna elettorale e nei giorni della vittoria e qualche dimenticanza, nello specifico, nel riportare le liste dei meeting sui moduli per la richiesta di accreditamento. Tutto ciò avrebbe fatto scattare un allarme all’intelligence. Allo stesso modo si sta cercando di ricostruire gli affari passati del giovane businessman, che avrebbe avuto a che fare – tra l’altro – proprio con imprenditori cinesi per affari di un certo peso.

Stati Uniti kushner

È Jared Kushner il Mr. Cina alla Casa Bianca?

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