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Il mercato ha reagito in modo “significativo” al decreto di riforma con cui il governo ha obbligato le banche popolari con attivo patrimoniale superiore agli 8 miliardi di euro a trasformarsi in società per azioni. È quanto rileva l’Osservatorio monetario, redatto dall’Associazione per lo Sviluppo degli Studi di Banca e Borsa e dall’Università Cattolica, che alla questione ha dedicato un capitolo dell’ultimo numero. L’annuncio della riforma che obbliga questi istituti ad abbandonare il voto capitario in favore del voto proporzionale alla partecipazione al capitale – rendendoli dunque più attraenti per gli investitori – “è stata sia statisticamente sia economicamente significativa” si legge nel documento che rileva come al contrario, nello stesso lasso di tempo, i rendimenti azionari delle banche quotate non interessate direttamente dalla riforma non abbiano avuto “variazioni di rilievo”. Tale differenza si spiega perciò proprio con l’annuncio dell’esecutivo anziché con “altri eventi contemporanei”. Del resto, scrivono gli autori dello studio, “la letteratura suggerisce una reazione positiva del mercato all’annuncio di un cambiamento del meccanismo di voto come quello imposto dal governo italiano. In effetti, tale cambiamento di governance dovrebbe determinare un aumento dell’efficienza e della redditività delle banche coinvolte, migliorando la loro capacità di raccogliere capitale di rischio e aprendo la strada a eventuali operazioni di fusione o acquisizione”.

IL CONFRONTO

In particolare, Banca Popolare dell’Etruria è l’istituto con il più alto effetto (46%), più del doppio dell’impatto stimato per il secondo del gruppo, Credito Valtellinese, pari al 18,3%. All’ultimo posto troviamo Ubi (7%), mentre per Banca Popolare di Sondrio, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Milano e Banco Popolare l’impatto varia tra il 9,8% e il 13,9%. In media, escludendo Popolare dell’Etruria con il suo exploit, l’effetto assoluto medio è del 13%. Non così invece per le banche del campione di controllo, ovvero quasi tutte quelle quotate e costituite in spa. “In particolare, Intesa Sanpaolo e Unicredit (le due maggiori banche del paese) hanno mostrato volumi anomali statisticamente significativi nel giorno dell’annuncio e nei due giorni successivi, ma non nei due giorni precedenti l’annuncio – si legge nell’Osservatorio monetario -. I dati relativi a Carige, Monte dei Paschi di Siena e Mediobanca non hanno evidenziato alcun impatto sul volume di scambi a seguito dell’annuncio. Banco di Desio e della Brianza, Banca Profilo e Credito Emiliano, invece, hanno mostrato volumi di scambi anomali statisticamente significativi a partire da due giorni prima dell’annuncio. Considerato il fatto che queste sono anche le tre banche più piccole del gruppo di controllo, il risultato suggerisce che il mercato ha ipotizzato un loro possibile coinvolgimento in un eventuale processo di consolidamento dell’industria bancaria stimolato dalla riforma”.

ALTRE EVIDENZE

Altro elemento che emerge dall’analisi è “l’esistenza di una relazione negativa tra dimensioni bancarie e rendimenti anomali”. Una relazione, spiegano gli autori dello studio, la quale suggerisce che “il mercato potrebbe avere considerato le banche più piccole come target ideali di un eventuale processo di aggregazione dell’industria bancaria indotto dalla riforma”: in tal modo beneficerebbero del processo di consolidamento sia per quanto riguarda una maggiore solidità finanziaria sia una più elevata efficienza operativa. Uno spunto interessante infine arriva dalla correlazione negativa tra il livello dell’indice patrimoniale Core Tier 1 e i rendimenti anomali stimati. Da ciò parrebbe derivare che il mercato – in linea con gli obiettivi dichiarati della riforma – si aspetta che le banche più deboli dal punto di vista patrimoniale possano rafforzarsi “grazie a un accesso più agevole e più ampio al capitale” dovuto alla modifica del sistema di voto.

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