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Si è aperto a Washington questo mercoledì il ciclo di incontri che si concluderà il 20 agosto per discutere una rinegoziazione del NAFTA, l’accordo di libero scambio firmato nel 1994 fra Stati Uniti, Canada e Messico. Un appuntamento ormai improrogabile dopo che Donald Trump aveva minacciato il 22 aprile di abbandonare l’accordo rispolverando una promessa fatta in campagna elettorale. Si sono seduti intorno a un tavolo il rappresentante per il commercio americano Robert Lightizer, il ministro degli Esteri canadese Chrystia Freeland e il ministro dell’Economia messicano Ildefonso Guajardo.

Secondo un rapporto di quest’anno del bureau economico della Casa Bianca, da quando è entrato in azione l’accordo di libero scambio il volume del commercio statunitense con Messico e Canada è triplicato, da 350 miliardi di dollari nel 1993 a 1,2 trilioni di dollari in beni e servizi nel 2016. Da quando però lo scorso anno il NAFTA ha causato agli Stati Uniti un deficit commerciale con il Messico da 63 miliardi di dollari, Trump non ha smesso di accusare la manodopera a basso costo messicana per la disoccupazione statunitense.

Accuse non prive di fondamento: secondo l’OECD il Messico è all’ultimo posto nella classifica degli stipendi medi con 15.230 dollari all’anno. Tradotto in uno stipendio giornaliero, si tratta di buste paga da 5 euro l’ora, peraltro senza assicurazione sanitaria. Ed è un fatto inequivocabile che le più grandi industrie del manifatturiero, settore automobilistico in testa, abbiano spostato negli ultimi mesi i loro stabilimenti in Messico per ridurre i costi del lavoro: è il caso della Ford Motor Co., ma anche della Carrier Corp., dell’Illinois Tool Works Inc. e del Triumph Group Inc., per citare quelli che più hanno fatto innervosire Trump.

Dopo il fallimento in politica interna delle retromarce sull’Obamacare e sul Muslim ban, la rinegoziazione del NAFTA è per Trump una preziosa occasione per dimostrare al suo elettorato di saper mantenere le promesse fatte in campagna elettorale. Il 17 luglio il Dipartimento per il Commercio ha stilato una lista di priorità che dovrà guidare i dialoghi a Washington in questi giorni con i governi di Justin Trudeau e Enrique Pena Nieto. Su alcuni punti c’è il rischio che il tono dei negoziati si faccia più acceso. È il caso dei panels previsti dal capitolo 19 del NAFTA con lo scopo di arbitrare i contenziosi sui dazi e le quote. L’amministrazione Trump li ritiene una limitazione della sovranità del Paese e vorrebbe cancellarli affidando le contese alle corti statunitensi. Un’opzione che le due controparti non hanno intenzione di prendere in considerazione.

Il secondo punto su cui Washington chiederà un cambio di marcia è quello delle regole sulla provenienza: il NAFTA prevede che una percentuale minima delle componenti di un prodotto sia riconducibile a uno dei tre Paesi perché possa godere delle esenzioni tariffarie. Per fare un esempio, l’accordo fissa una percentuale del 62,5% per le automobili e del 50% per le lattine di vernice. Il dipartimento per il Commercio americano guidato da Wilbur Ross vuole alzare quelle percentuali, a dispetto delle proteste delle aziende automobilistiche, che temono la concorrenza europea e asiatica.

Sarà sul tavolo anche la promessa fatta da Trump in campagna presidenziale di imporre un “Buy America act”. Il 18 aprile il presidente americano aveva firmato un ordine esecutivo che richiede alle agenzie governative di scegliere materiali “domestici”, dalla costruzione di strade all’industria militare. Lo scorso lunedì il ministro degli Esteri canadese Freeland ha ammonito che il Canada non accetterà alcun tipo di accordo che obblighi ad acquistare prodotti locali. Parlando all’università di Ottawa, ha ammesso che “ci potrebbero essere momenti drammatici davanti a noi”, ma anche di essere “profondamente ottimista sul risultato finale”. Secondo il Peterson Institute for International Economics, che quest’anno ha pubblicato un rapporto sulla rivisitazione dell’accordo, il NAFTA può essere modernizzato solo se l’America First di Trump “viene rimpiazzato da un accordo che porti beneficio a tutti e tre i Paesi e aumenti la loro competitività”.

Il governo americano ha poi richiesto di inserire nel testo principale dell’accordo nuovi standards ambientali e lavorativi per rendere l’accordo più facilmente applicabile. Un piccolo paradosso: dopo aver ripudiato l’accordo di Parigi (Coop21) e il Trans Pacific Partnership (TPP), che contenevano numerose disposizioni su entrambi i temi, oggi Trump si riscopre ambientalista e vuole far rientrare dalla finestra le regole ambientali che aveva cacciato dalla porta.

Sembra invece che l’amministrazione americana abbia abbandonato la proposta di Trump di imporre una tassa al confine (Border Adjustment Tax), una tariffa del 15% su tutte le merci che giungono dall’Estero negli Stati Uniti volta a bloccare l’esodo delle grandi aziende fuori del Paese. A far cambiare idea alla Casa Bianca hanno contribuito le proteste di aziende come la Walmart e la Toyota. Uno studio del Boston Consulting Group di questa primavera commissionato dalla Motor & Equipment Manufacturing Association (MEMA) ha provato che una tassa del genere costerebbe alle aziende automobilistiche statunitensi 34 miliardi di dollari, con un aumento di più di 1000 dollari del costo di produzione di ogni singola auto.

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